Bersani e i referendum, ma questo voltagabbana può mai governare?

Il segretario del Pd è comunista e liberista, nasce nuclearista ma poi si pente Ormai parla solo per proverbi. Lui stesso è diventato la metafora di un leader

Bersani e i referendum, 
ma questo voltagabbana 
può mai governare?

Pier Luigi Bersani è una metafora. Non solo perché le dice, per questo basta ascoltare Crozza e i suoi «oh ragazzi, siam mica qui a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole».
Bersani è una metafora in sé, la incarna, la veste, la vive, ci si specchia, qualche volta ci va a cena insieme: lui e la sua metafora, da soli, a lume di candela. Bersani da qualche anno è soprattutto una metafora di leader, quando indichi lui stai in realtà parlando di qualcun’altro: D’Alema, Vendola, Di Pietro, Prodi, Rosy Bindi, La Repubblica, Montezemolo, il segnaposto di un Papa straniero, una station wagon da rottamare. Il bello delle metafore è che ci sguazzi dentro. Fai e disfai, neghi e rinneghi. Rinneghi le lenzuolate di privatizzazioni, l’acqua, il nucleare.

Parli con gli americani e prometti l’atomo. Poi arrivano i referendum e lo fai a pezzi. Attacchi il ciuccio dove vuole il padrone. Ieri di là, oggi di qua, domani forse. L’importante è raccontartela.
Il bersaneide non è solo un linguaggio. È un’identità. È la metafora di questa sinistra che finora ha vissuto di anti e di no. Anti Cav e no global. Anti nucleare e no Tav. Da quando è caduto il Muro che vivono così, specchiandosi nell’avversario con la speranza di riconoscersi. Il risultato è che a malapena sanno chi non sono, ma di certo non sanno chi sono. Non è un caso che ogni volta che cercano di definirsi, in una serie di metamorfosi gattopardesche, ricicciano sempre la «cosa», cosa uno, due, tre. Finora tutto questo è stato mascherato da Berlusconi. La sinistra degli anni zero esisteva come antitesi all’uomo di Arcore.

È un ruolo facile. Non devi farti tante domande. Non devi neppure pensare a come trovare una via d’uscita dalla palude in cui è immersa l’Italia. Non ti devi sforzare di immaginare riforme. Se proprio ti va male ti capita di governare qualche anno, ma poi ti rinserri all’opposizione a paventare apocalissi o farti i soldi in tv come martire del berlusconismo. I guai cominciano quando lo specchio che hai di fronte, quel Cav che dà senso alla tua non identità, si scheggia. Allora, porco boia, qui se piove, piove per tutti. Magari festeggi, dici «ehi ragazzi, abbiamo smacchiato il ghepardo», ma c’è una parte di te che finisce dallo psicanalista: ragazzi oh, ma siamo pazzi, non ci avevano assicurato che questo specchio era infrangibile? Insomma, se la sinistra perde Berlusconi che gli resta?
Gli resta la metafora. E qui entra in gioco Bersani. È il Giovan Battista Marino della politica italiana. Luna padella. «È del poeta il fin la meraviglia, chi non sa stupir vada alla striglia».

È il barocco postmoderno. È un ragù di manierismo. Il segreto è questo. Se c’è uno che ancora per qualche anno può permettere al Pd di non pensare è proprio lui. È questo post comunista emiliano (e il Pci emiliano era una metafora del comunismo), uomo di apparato, cresciuto a coop e bottega, con una deviazione hard rock per gli Ac/Dc, liberista per vocazione familiare, con un padre benzinaio, nuclearista pentito, convinto che quando il Papa benedice la famiglia classica non abbia poi tutti i torti, perfino un po’ padano e con un destino da Jessica Rabbit: «Non sono cattivo, mi disegnano così».
È questa la forza di Bersani. Non impegna la sinistra da nessuna parte. Non è Vendola che è la metafora mistica di Checco Zalone, con i suoi sermoni e i fratelli zingari. Non è la reincarnazione di Gioacchino Murat come De Magistris.

È un venditore di metafore più bravo di Tonino da Montenero di Bisaccia. Non è così di sinistra come Fini. Non ha tentazioni democristiane. Non va alla ricerca come Veltroni di un’ultima incompiuta. Non odia il popolo come D’Alema. Non è la sinistra intellettuale di Fo e Eco e al Rotary club di De Benedetti lo metterebbero alla guida di qualcosa, ma solo come autista, una metafora di Ambrogio con la scatola dei Ferrero Rocher nel cruscotto. Il vantaggio di Bersani è che come metafora può sfiorare tutto questo senza dover fare i conti con l’identità. Cos’è la sinistra? Un proverbio, un luogo comune, un aneddoto, una suggestione, un bacio Perugina, uno slogan, un’imitazione, una bocciofila, un elenco Fazio-Saviano, un referendum in saldo, ma soprattutto una metafora di qualcosa che non c’è. Bersani la racconta perfettamente. Va e per ogni problema trova la soluzione metaforica. «Possiam mica rimettere il dentifricio nel tubetto».

«Se fai uscire i buoi dalla stalla ne prendi due, uno dei due è una mucca, la mungi bene, ma se ne hai fatto scappare cento». «Abbiamo dovuto dare un bel drizzone per rimettere a posto i conti». «Giovane e vecchio non valgono un bottone». «Un partito si costruisce a forza di cacciavite». «Il consenso è come una mela sul ramo: balla, balla ma cade solo se c’è il cestino». «A Tremonti rimprovero di fare molto il filosofo, un po’ il ragioniere, ma per nulla l’idraulico». «Tutti quelli che oggi si fan di nebbia vanno a finire nel girone degli ignavi». E poi dopo l’ultima birra salutare gli amici con un piccolo trattato di filosofia morale: «In un bocciodromo la boccia si può tirare a punta, a bocciata, o in un altro modo. Ma se uno va in una bocciofila non può tirare come gli pare».

L’importante non è capire la metafora, ma far finta di crederci. Sono vent’anni che la sinistra ci si attacca per darsi un senso. Non sbagliò Bersani quando scelse come colonna sonora del Pd Un senso di Vasco Rossi. Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha. Perfetto.

Bersani ha capito tutto. La democrazia è un gioco di specchi. È lui che imita Crozza che imita Bersani.
È l’imitazione di un’imitazione. Imitazione al quadrato. «Porco boia, ragassi, siam passi? Siam mica qui a cotonare i Pooh!».

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