"Billy Wilder il regista più grande odio il personaggio di Dracula"

Il simbolo del cinema horror è parente dei Savoia: la madre era la contessa Carandini

da Bellinzona

Chi è il solo attore ad aver interpretato le serie di film di maggior successo degli ultimi decenni, da Frankenstein a Dracula, dal Dr. Jekyll e Mr. Hyde a Fu Manchu, dalla Mummia a 007, da Halloween a Star Wars e al Signore degli Anelli? Christopher Lee, 83 anni compiuti, 193 centimetri di statura (è il più alto del mondo fra gli attori protagonisti), e 225 film all’attivo (con punte di cinque film l’anno). Altri tre sono in uscita, incluso il film-tv dove impersona il cardinale Wiscinski, perseguitato dai comunisti.

Logico che la capitale del Cantone e Stato del Ticino, Bellinzona, sia in fermento per la sua presenza come ospite della XVIII edizione di Castellinaria, il piccolo festival diretto da Giancarlo Zappoli e dedicato al cinema per la gioventù che riconcilia con il cinema in generale chi dai grandi (per dimensioni) festival esce stremato e avvilito. Vanto della città, le mura medievali avrebbero potuto essere lo sfondo per la lunga falcata di Lee quando impersonava un Dracula altero e austero. Né Klaus Kinski né Gary Oldman hanno fatto meglio; solo Frank Langella gli s’è avvicinato in fascino. Quanto all’autoironia, basta un ricordo: in Tempi duri per i vampiri di Steno (1959) - dove Rascel cantava in suo onore «Dra-cu-la, Dra-cu-la/vampiro dal nero mantello», Lee stentava a stare tutto con lui nella stessa inquadratura.

Questo e altri film (con Mario Bava) e film-tv (con Lamberto Bava) non concludono i legami italiani di Lee, che parla italiano come veste da inglese: perfettamente. L’eleganza è un’eredità: la madre era Estelle Marie, contessa Carandini, imparentata con Casa Savoia. L’anno scorso Casina (Reggio Emilia), terra d’origine dei Carandini, ha dato a Christopher - nato nel quartiere di Belgravia, a Londra, da un militare di carriera - la cittadinanza onoraria.

Signor Lee, come ha cominciato col cinema?

«Pranzando nel 1947 con l’ambasciatore italiano a Londra, Niccolò Carandini, cugino di mia madre. Lui mi ricordò che i fondatori del teatro d’opera, in Australia, erano miei avi».

Anche lei canta: ha inciso dischi su musiche di Stravinsky e diretto da Menuhin.

«Ho una certa voce (tuttora tonante, ndr) e da ragazzo avevo anche fatto la scuola shakespeariana, ma non bastava: attore per presenza fisica si nasce; per capacità si diventa in dieci anni».

Non aveva dunque la vocazione.

«No. Prima della guerra ho lavorato negli uffici di compagnie di navigazione».

Ma lei era cugino, da parte del patrigno banchiere, anche di Ian Fleming, agente segreto e futuro ideatore di 007. E poi nel 1939 era volontario contro i russi in Finlandia.

«In effetti sono finito nei servizi segreti della Raf. Fra il 1945 e il 1946 inseguivo criminali di guerra tedeschi. Infine congedato, non sapevo bene se tornare a fare l’impiegato. Il resto gliel’ho detto».

Suo cugino Fleming modellò su di lei il dr. No.

«Ma l’interpretò Joseph Wiseman in Agente 007, licenza di uccidere».

Lei è stato però Scaramanga nell'’Uomo dalla pistola d’oro (1974).

«Sì. Ma James Bond non era più Sean Connery: era Roger Moore».

Connery aveva presto odiato Bond.

«Come io ho presto odiato i miei personaggi di maggior successo».

Però lei è stato dieci volte Dracula, cinque Fu Manchu e tre Sherlock Holmes. E nella Vita privata di Sherlock Holmes, di Billy Wilder (1970), ha interpretato perfino il fratello di Sherlock!

«Liberarsi di loro è stato difficile perché i produttori di queste serie fortunate vendevano immediatamente i seguiti ai distributori americani».

Dunque?

«Rifiutando - mi veniva risposto -, cento persone della troupe sarebbero state disoccupate».

E lei accettava.

«Erano ricatti».

Lei già piaceva a Kubrick: in Lolita (1962) mostra una scena de La maschera di Frankenstein di Terence Fisher (1957)... Kubrick, americano di Londra; lei, londinese di Hollywood.

«Sì, ci ho abitato fra il 1975 e il 1985. Già c’era l’ossessione: “Attori giovani, giovani, giovani; e belli, belli, belli. Perché il pubblico è solo di ragazzi”. Ma il cinema è per ogni età».

Lei lo dimostra.

«Però le attrici sono considerate vecchie a trentacinque anni».

Lei ha lavorato con Powell & Pressburger.

«È vero».

Poi ha lavorato per Huston in Moulin Rouge (1952), per Nicholas Ray in Vittoria amara (1957), per Steven Spielberg in 1941 - Allarme a Hollywood (1979), per Peter Jackson nei tre episodi del Signore degli Anelli (2001-2004).

«Sono tutti grandi registi. Ma il grande fra i grandi è stato Billy Wilder: meticoloso, sferzante, non perdonava gli errori, ma otteneva sempre il meglio dagli attori».

Della generazione attuale chi preferisce?

«Tim Burton. Col Mistero di Sleepy Hollow (1999) ha reso omaggio al cinema d’orrore della Hammer, quello dei miei inizi; con lui nel 2005 ho fatto La fabbrica di cioccolato e ho dato la voce per un personaggio della Sposa cadavere».

E degli italiani?

«Ho un bel ricordo di Mario Bava: entrò nella scena d’amore che avevo con Dahlia Lavi nella Frusta e il corpo (1963), come se anche lui fosse un attore e non il regista!».

E che cosa ricorda di Alberto Sordi?

«Nel 1990 con lui ho girato L’avaro di Molière diretto da Tonino Cervi.

Mentre pronunciavo una battuta, sento come un’eco. Credo che sia l’acustica di Palazzo Farnese, invece no: era Sordi che l’aveva ripetuta fuori campo. Non riusciva a star fermo, né a tacere! Ma lui, non Mastroianni, è stato il più grande attore italiano».

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