La bambina con il pigiama a righe, una delle poche ebree uscite vive da Auschwitz, tornò a Milano nell’agosto del 1945, quando stava ormai per compiere 15 anni. Pesava 32 chili. «Ero un gattino randagio, cercavo notizie di mio papà, l’unica cosa che avevo al mondo», ricorda Liliana Segre, «non mi rassegnavo all’idea che l’avessero bruciato nei forni».
L’imprenditore Alberto Segre era stato separato da quell’unica figlia il giorno stesso del loro arrivo nel campo di sterminio. Fino a quel momento le aveva fatto da padre e anche da madre. «Sapevo che Eugenio Pacelli, prima di diventare pontefice, era stato nunzio a Berlino e quindi speravo che potesse attivare qualche canale diplomatico in Germania per cercare il babbo tra i sopravvissuti».
L’intermediario con la Santa Sede fu uno zio materno, Dario Foligno, avvocato della Sacra Rota che di lì a poco sarebbe diventato vice Avvocato generale dello Stato. Nel 1933, dopo aver letto il De civitate Dei, s’era convertito al cattolicesimo e aveva preso il cognome Agostino in ricordo del santo d’Ippona. Il 16 ottobre 1943, durante il rastrellamento nel ghetto di Roma, era stato catturato dai nazisti insieme con la moglie e i tre figli, l’ultimo di appena due mesi. Ma, grazie alla nuova identità, era stato subito rilasciato e aveva trovato rifugio in Vaticano con l’intera famiglia. «Lo zio chiese un’udienza privata a Pio XII, che me la accordò. Fummo ammessi nella sua biblioteca, tutti vestiti di nero, le donne con la veletta. All’arrivo del Papa eravamo in ginocchio, ma egli mi venne incontro e disse: “Alzati! Sono io che dovrei stare inginocchiato davanti a te”».
Liliana Segre non assolve, non condanna, non accusa, non recrimina. E non si commuove mai. Racconta e basta. Da una ventina d’anni non fa nient’altro che questo, soprattutto nelle scuole, dove ha avvicinato oltre 100.000 studenti.
La vita l’ha messa a dura prova fin dalla nascita. È cresciuta senza la mamma, Lucia Foligno, consumata da un tumore all’intestino 10 mesi dopo il parto. «Aveva appena 26 anni. Nel 1929 s’è sposata, nel 1930 mi ha messo al mondo, nel 1931 è morta». Dal giorno in cui fu segregata nel lager, e fino al 1951, la bambina con il pigiama a righe non ha versato una sola lacrima. «Sono riuscita a piangere soltanto quando a 21 anni ho dato alla luce il mio primogenito. L’ho chiamato Alberto, come il nonno». Di figli ne ha avuti tre. Il marito, l’avvocato civilista Alfredo Belli Paci, è scomparso nel 2007. «Siamo stati insieme 58 anni. Era l’uomo della mia vita».
Liliana Segre ha perso nella Shoah, oltre al padre, altri sei familiari: i nonni paterni, Olga e Giuseppe, fondatore nel 1897 della Segre & Schieppati, tessuti industriali, e quattro cugini, Rosa Spiegel col figlio Felice e Rino Ravenna col fratello Giulio. «Rino si suicidò gettandosi dall’ultimo piano del raggio mentre eravamo reclusi a San Vittore. Ricordo il suo corpo scomposto sul pavimento del carcere: era il primo morto che vedevo in vita mia. La deportazione di Giulio si fermò invece a Fossoli: morì di stenti nel campo di concentramento vicino a Modena».
Dal 6 febbraio 1944 al 1° maggio 1945, quando fu liberata dalle truppe americane, la bambina con il pigiama a righe è passata attraverso quattro lager: da Auschwitz-Birkenau a Ravensbrück, poi in uno Jugendlager, infine a Malchow. Lì l’ultimo giorno avrebbe potuto vendicarsi. Ma non lo fece. «Le SS si spogliavano sotto i nostri occhi e s’infilavano gli abiti borghesi; scacciavano i loro cani lupo, che erano stati i simboli del potere, gli strumenti del terrore, weg, weg, via, via, cercavano di allontanarli, ma le bestie, disorientate, si scostavano di poco e poi tornavano scodinzolanti accanto ai padroni. Il comandante di Malchow gettò la divisa nel fosso e restò in mutande davanti a me. La pistola era a terra. Non se ne preoccupò. Per lui rimanevo uno Stück, un pezzo, forse nemmeno s’accorse della mia presenza. Fu un attimo. Pensai: ora la raccolgo e gli sparo. Ma non ne ebbi il coraggio. L’amore che mio padre mi aveva dato m’impedì di diventare uguale a quell’assassino. Quando scegli la vita, è per sempre, non puoi più toglierla a nessuno. Da quel momento mi sono sentita libera».
Se dovesse dare una definizione sintetica di ciò che le è accaduto, che parole userebbe?
«Indifferenza, solitudine, pietà. Alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938, il mondo intorno a noi rimase indifferente. Eppure eravamo persone oneste, con l’unica colpa d’essere nate. Io avevo 8 anni. Era una sera d’estate. Mio padre mi prese da parte e mi disse che non sarei più potuta tornare alla scuola elementare Fratelli Ruffini, perché ero ebrea. Avevo finito la seconda, aspettavo di andare in terza. Le mie amichette mi segnavano a dito per strada, senza pietà. È importante, la pietà. Per chi la prova e per chi la riceve».
Suo padre non pensò di espatriare?
«Mio nonno era gravemente malato di Parkinson. Come avrebbe potuto lasciarlo qui? L’8 settembre del ’43 i nostri amici Pontremoli avevano affittato un’auto ed erano fuggiti in Svizzera, spronandoci a fare altrettanto. Ma noi Segre ci sentivano profondamente italiani. Ritenevamo che non ci sarebbe accaduto nulla di male. Mio padre era un ex ufficiale, un ragazzo del ’99. Suo fratello Amedeo, decorato con la croce di guerra a Caporetto, fascista della prima ora, è morto a 88 anni con questo rimorso. Non avendo figli, al mio ritorno mi adottò. L’ho sentito urlare tutte le notti, sino alla fine. Sempre lo stesso incubo: sognava di tirar giù i genitori dal vagone piombato, ma non ci riusciva, i repubblichini glielo impedivano».
Voi che faceste dopo l’8 settembre?
«Papà riuscì a nascondermi prima a Ballabio e poi a Castellanza presso due famiglie cattoliche, i Pozzi e i Civelli, che rischiarono la fucilazione per tenermi con loro. A dicembre del ’43 decise di scappare in Svizzera. Con noi due vennero i cugini Ravenna. Ricordo il suo strazio nel doversi procurare, lui che era un cittadino integerrimo, documenti d’identità falsi. Io non riuscivo a imparare a memoria nome e cognome nuovi, mi rifiutavo di considerarmi nata a Palermo. Nella mia ingenuità vivevo quella fuga attraverso le montagne come un qualcosa di eroico. Non mi rendevo conto che c’eravamo affidati a spalloni senza scrupoli, delinquenti che potevano consegnarci o ammazzarci. Papà aveva con sé 7.500 lire, alcuni brillanti cuciti nella cintura e la sua collezione di valori filatelici. Come un eremita, dopo essere rimasto vedovo, ogni sera per anni l’aveva riordinata con lente d’ingrandimento e pinzette».
Che accadde?
«Fummo acciuffati da una sentinella elvetica e portati nella gendarmeria di Arzo, in Canton Ticino, dove il comandante, uno svizzero tedesco, ci prese a male parole: “Ebrei impostori, non è vero che in Italia succedono le cose che dite voi! Tornatevene sui monti”. Ci rispedì indietro. E fu a quel punto che vidi mio padre buttare nel fango tutti i suoi preziosi francobolli: aveva capito che non gli sarebbero più serviti a nulla. Ormai eravamo spacciati. Infatti fummo subito arrestati dai finanzieri italiani in camicia nera. Finii tutta sola prima nel carcere femminile di Varese, poi in quello di Como. Immagini la gioia quando mi riunirono a mio padre a San Vittore. Cella 202, quinto raggio. L’ultima casa che abbiamo avuto».
Per quanto tempo rimaneste nella prigione milanese?
«Quaranta giorni. Di notte mi svegliavo di soprassalto nella brandina rasoterra e vedevo papà inginocchiato accanto a me, a chiedermi perdono per avermi generata. Finché un giorno la Gestapo non fece l’appello: 605 nomi. Il nostro trasporto. Siamo ritornati in 20. Mentre il camion ci portava alla stazione centrale, all’angolo di via Carducci vidi la nostra casa di corso Magenta 55. Le finestre dei milanesi rimasero chiuse».
Che avrebbero dovuto fare? Affrontare a mani nude i mitra dei nazisti?
«Si ricorda quel giovane cinese con la camicia bianca, disarmato, che il 4 giugno 1989, sulla piazza Tien An Men, fermò da solo una colonna di carri armati? Che fine avrà fatto? Lui almeno ci ha provato. Nel ’43-’44 molti in Italia sapevano che cosa stava accadendo agli ebrei. Ma nessuno ci provò. Pio XII accorse a San Lorenzo, dopo il bombardamento. Se fosse accorso anche alla stazione Tiburtina, avrebbe potuto mettersi davanti al convoglio di 18 carri bestiame che tradusse ad Auschwitz i 1.024 ebrei catturati nel ghetto, compresi più di 200 bambini. Crede che i tedeschi l’avrebbero investito col treno?».
Credo che la contabilità finale dell’Olocausto sarebbe stata di gran lunga più spaventosa.
«Nessuno può saperlo e comunque il suo gesto sarebbe rimasto nella storia. Non ce l’ho con la Chiesa, badi bene. I miei nonni materni furono salvati da poverissime suore di Monteverde che non avevano cibo neppure per loro. Ma il silenzio di Pio XII fu assordante, c’è poco da fare. Gli unici che provarono pietà per noi furono gli assassini e i ladri detenuti a San Vittore. “Dio vi benedica”, ci gridavano, e dalle celle ci lanciavano biscotti, arance, guanti mentre le guardie ci portavano via».
Che cosa ricorda dell’arrivo ad Auschwitz?
«L’immediata separazione da mio padre. Le donne e i bambini venivano mandati da una parte, gli uomini da un’altra. Ma io non immaginavo che sarebbe stato per sempre. Lo consolavo da lontano con piccoli gesti della mano, cercando di non piangere. Pensi che mia figlia compie questa settimana 44 anni, l’età che aveva mio padre quando fu ucciso. Si può sopportare questo strazio da figli, ma da genitori no. A San Vittore era detenuta con noi la famiglia Murais, sei persone. Papà aveva notato che la signora, Mafalda Tedeschi, era molto affettuosa con i figli. “Se ci separeranno, sta sempre vicino a lei”, mi ordinò. Così io, appena scaricata ad Auschwitz, mi misi davanti ai Murais. Nessuno di noi sapeva che quelli mandati verso destra finivano al gas e quelli a sinistra ai lavori forzati. “Allein?”, mi urlò un aguzzino, sei da sola? Io conoscevo poco il tedesco, ma ricordavo una canzone, Wien, Wien, nur du allein. Allein, risposi, e fui mandata a sinistra. La signora e i figlioletti a destra, a morire. E io tentavo disperatamente di raggiungerla per obbedire a mio padre: signora Murais, signora Murais... Mi dica lei se non c’è una Samarcanda nelle nostre vite, un appuntamento col destino. Ho fatto di tutto per stare con loro e quella stessa sera loro erano cenere».
Come seppe che c’erano le camere a gas e i forni crematori?
«Me lo dissero le altre prigioniere. Lì per lì mi rifiutai di crederci. Li uccidono e li bruciano? Ma voi siete pazze! Ancora oggi, a distanza di 65 anni, mi pare impossibile. Ma poi nella mente rivedo le ciminiere in fondo al campo, il fumo denso... Era tutto organizzato con illogica crudeltà. Alla prima selezione un ufficiale medico mi toccò la pancia. Due anni prima avevo subìto l’asportazione dell’appendice. Pensai che fosse giunto il mio turno, che m’avrebbe mandata al gas per quella cicatrice. Invece si mise a pontificare con i suoi colleghi assassini su quanto fossero somari i chirurghi italiani: a suo dire mi avevano suturato male la ferita. C’era un reparto che noi chiamavamo, non so perché, Canada. Selezionava tutto ciò che veniva strappato agli ebrei: valigie, occhiali, vestiti. E le scarpe. Ci toglievano le scarpe e ci davano in cambio un paio di zoccoli spaiati, di misure diverse, solo per il gusto di renderci più penoso il camminare nella neve. Io mi sono salvata perché fui mandata a lavorare al coperto, alla Union, che fabbricava proiettili per mitragliatrici. E perché durante la marcia della morte verso gli altri lager, cominciata dopo l’evacuazione di Auschwitz, ho ingoiato bucce di patate e ossi di pollo raccattati nei letamai, incurante del fatto che dopo poche ore sarei stata colta da dissenteria e vomito».
È più tornata ad Auschwitz?
«Non ci riesco. È il cimitero della mia famiglia, però mi manca la forza per andarci. Men che meno riuscirei a intrupparmi in comitive che scambiano un pellegrinaggio per una gita e la sera corrono a ballare in discoteca. Il posto più vicino dove sono arrivata è Praga, 500 chilometri, ma lì ho sentito un odore che mi ha ricordato la Polonia e sono dovuta ritornare indietro. Ho lo stesso rifiuto per i treni merci, il fuoco, le ciminiere, i pastori tedeschi. Alla prima di Schindler’s list sono scappata dal cinema. Il bambino con il pigiama a righe non andrò a vederlo, ho solo letto il libro, e l’ho trovato bellissimo. Non posso parlare sempre di Shoah, non posso...».
Che cosa pensa dei negazionisti?
«Mi paralizzano. Ma trovo sbagliato che le loro tesi aberranti siano punite come reato dalle leggi di molti Stati. Sono per la libertà di espressione. La storia parla da sola. Gli studenti mi chiedono: “Non ha paura dei negazionisti?”. Rispondo: è perché mai? Semmai sono loro che devono aver paura di me».
Come mai nessuno, a parte Antonia Arslan, parla del genocidio degli armeni a opera dei turchi nel 1915?
«Ho appena incontrato Pietro Kuciukian, console onorario della Repubblica di Armenia. Gli ho detto: fra 30 anni la Shoah diventerà una riga sui libri di storia. Come fu per il vostro olocausto, quasi 2 milioni di morti, così sarà per il nostro, 6 milioni. L’arco di tempo della dimenticanza è quello: meno di un secolo».
Si sente in colpa per essere scampata?
«No, perché non ho fatto nulla per uscirne viva a spese di qualcuno. Dio o il caso hanno deciso per me, hanno voluto tenermi in vita, forse perché testimoniassi. Avvicino studenti che si professano naziskin e alla fine delle mie conferenze vengono a chiedermi perdono: “Non sapevamo che il nazismo fosse così”. Una ragazza di un istituto superiore di Porta Vigentina, qui a Milano, mi ha aspettato fuori dalla scuola: “Mia madre era sempre ubriaca, quand’ero bambina mi ha rovesciato addosso una pentola d’acqua bollente, ho tutto il corpo coperto da orribili ustioni e non so come dirlo al mio ragazzo. Che devo fare? Mi aiuti, la prego”. Le ho risposto: non aver paura, se ti ama davvero, non guarderà alla tua pelle bruciata ma al tuo cuore».
E a lei pesa quel marchio sull’avambraccio sinistro?
«Ne vado fiera». (Solleva la manica e mostra il numero di matricola 75.190 tatuato in blu sulla pelle). «La vergogna è di chi me l’ha impresso».
(445. Continua)
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