Biotech, la carica delle 220

Oltre 220 imprese, con una forte predominanza di aziende dedicate alla cura della salute, oltre 14 mila dipendenti, di cui un terzo impegnati in attività di ricerca e sviluppo, più di 4 miliardi di fatturato. È il biotech italiano che «prosegue deciso la propria corsa: gli ultimi dati ci consegnano un settore con ritmi di crescita a due cifre». Roberto Gradnik, presidente di Assobiotec, in occasione dell'apertura BioEurope Spring, una delle più importanti manifestazioni internazionali dedicate alle biotecnologie, che si svolge per la prima volta in Italia, incalza: «i numeri sono tutti positivi ma è un settore fatto da piccole e medie imprese, nate di recente, immature. Ora servono incentivi che consentano al comparto di consolidarsi».
Per Gradnik «non si tratta di distribuire fondi a pioggia, ma di adottare interventi mirati» e gli imprenditori leader del settore sono d'accordo con lui. Una leva su cui far pressione sono per esempio i progetti di ricerca e la loro redazione. «In Italia bisogna imparare a scriverli», afferma Ennio Ongini, biologo, vicepresidente e capo della ricerca di Nicox. La società è migrata nel '99 alla borsa di Parigi per poter crescere e da qui divenuta francese, anche se nata a Milano dalle idee tutte italiane di Michele Garufi, un manager esperto nel business farmaceutico internazionale e oggi amministratore delegato di Nicox, e di Pietro del Soldato, biologo, a cui va il merito di aver capito come legare l'ossido nitrico ad altre molecole. Secondo Ongini, «è necessario entrare in tutti i meccanismi di Bruxelles che mettono a disposizione fondi per la ricerca e il primo passo è imparare a presentare le domande in modo corretto. I nostri concorrenti sono bravi, mentre in Italia non siamo abituati a competere su questo terreno perché i fondi pubblici vengono distribuiti a pioggia».
E c'è da credergli visto che il direttore della ricerca Nicox è tra coloro che sono chiamati a valutare i progetti in sede di Commissione europea. È ottimista Laura Ferro, medico con alle spalle anni di corsia ospedaliera, che nel 2001 fonda Gentium, dopo aver ristrutturato l'azienda farmaceutica ereditata dal padre e separato l'attività di ricerca da quella industriale. Da allora di strada ne ha fatta parecchia se il Wall Street Journal l'ha inserita a fine 2006 tra le dieci «women to watch» (donne da tenere d'occhio) europee. Gentium, unica società quotata al Nasdaq, a solo un anno e mezzo dalla quotazione vale il doppio rispetto al debutto, anche se il Defibrotide, il farmaco intorno al quale è nata l'azienda, deve ancora concludere la sperimentazione. «Il gap nel biotech si sta colmando - sostiene Ferro - l'Ieo, il Mario Negri e il San Raffaele ce li invidiano tutti. Manca l'altra faccia della medaglia, quella istituzionale e politica che si fa sentire solo quando si tratta di tagliare i prezzi dei farmaci». Nonostante i tanti inviti a delocalizzare in Austria, nel Canton Ticino e in Francia a condizioni di estremo favore, lei per ora ha deciso di restare in quel di Como, «sperando che non sia un suicidio».
«Qualcosa sta già cambiando, ma i tempi fanno la differenza: se ci fossero dei facilitatori potremmo davvero competere ad armi pari». A sostenerlo è Marina Del Bue, un passato di manager nell'industria farmaceutica e oggi direttore generale di Molmed, sita nel parco tecnologico del San Raffaele che ne è anche azionista di maggioranza relativa. Molmed, con una buona linea di sviluppo per le terapie cell-based del cancro, ha raccolto finora 60 milioni di euro direttamente da istituzioni finanziarie e da investitori privati e conta a breve di andare in Borsa: «non mi dispiacerebbe guardare al mercato italiano», conferma Del Bue.

«Ma bisogna vedere quali sono le condizioni: se possibile, è meglio rimanere nel contesto in cui si lavora». E quando parla di «facilitatori», pensa per esempio all'idea francese di «giovane società innovativa», cioè a un sistema che offra benefici fiscali alle start up fondate sulla ricerca.
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