Biotecnologie, l’Italia accumula altri ritardi

Dompè (Farmindustria): «Da noi non si considera il mondo scientifico cuore dello sviluppo Basta guardare la Finanziaria...»

Le biotecnologie in Italia? Bruxelles è tranciante: bassi investimenti, carenza di grandi imprese tecnologiche, limitata propensione alla brevettazione, sistema formativo poco competitivo, mancanza di capitali finanziari, carenza di mercato di venture capital. Un giudizio davvero poco lusinghiero, ma tanto si legge nel rapporto annuale della Direzione generale per la ricerca della Commissione europea (Annual Innovation Policy Trends and Appraisal Report 2004-2005) e che «evidenzia lo scollamento tra ricerca e sistema industriale, quest’ultimo lento e molto poco evoluto, che richiederebbe investimenti in conoscenza», ha sottolineato Tommaso Russo, coordinatore scientifico di Gear, il Centro regionale di competenza in genomica della Campania che riunisce sotto il suo ombrello 200 tra ricercatori e tecnici e si avvale delle collaborazione di laboratori altamente specializzati nel tentativo di favorire il trasferimento dei risultati dal laboratorio all’industria. Nel ’99 Bruxelles aveva stabilito che gli investimenti in ricerca raggiungessero il 3% del Pil nel decennio 2000-2010, percentuale poi rivista al 2,2. «Noi siamo lontani anni luce da questo standard - sottolinea Russo - è un sogno che l’Italia arrivi a investire un simile percentuale. Noi creiamo prodotti a basso contenuto tecnologico, come per esempio vestiti e occhiali, che possono essere realizzati in Cina e in India per di più a costi inferiori, mentre dovremmo puntare sulla conoscenza e l’alta tecnologia. Per l’Ue il fatto che l’Italia sia orientata verso altri obiettivi è un punto di debolezza. Certo, se non invertiamo la rotta, accumuleremo altro ritardo».
Un Paese di creativi più che di scienziati? Da una ricerca condotta da Alfonso Gambardella dell’università Bocconi di Milano e Aldo Geuna dell’università del Sussex sulla specializzazione scientifica italiana e la relativa valutazione dei punti di forza, risulta che siamo competitivi in biologia e medicina, oltre che in matematica, fisica e chimica, mentre non abbiamo nulla da dire, per esempio, in ingegneria ed economia. In alcune aree, come per esempio gastroenterologia, ematologia, oncogenetica e oncologia, raggiungiamo addirittura l’eccellenza. Dunque, che fare per promuovere le biotecnologie rosse, quelle legate alla cura della salute, uno dei settori emergenti dove non mancano risorse umane di valore nel Belpaese?
«In Italia da una parte c’è una base scientifica consistente: ci sono dei buoni centri e personale altamente qualificato sia nella ricerca di base, sia in quella applicata - sostiene Leonardo Santi, presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie -. Dall’altra esiste un tessuto di microimprese che sono duttili ma dispersive, incapaci di sfruttare i vantaggi della ricerca e di inserirsi nei circuiti internazionali».
Per andare oltre «bisogna lasciar perdere le passerelle, le chiacchiere delle tavole rotonde - incalza Santi - e fare passi concreti per mettersi insieme, concentrare le risorse disponibili per sfruttare le opportunità, realizzare progetti di un certo respiro e brevettare le scoperte. Sono le condizioni reali per attivare il trasferimento della ricerca all’impresa».
«L’Italia scientifica è vivace - evidenzia Sergio Dompè, presidente di Farmindustria, l’Associazione delle industrie farmaceutiche italiane -. Nell’ultimo decennio sono oltre 60 i progetti che hanno raggiunto la fase di sviluppo e conquistato le pagine delle riviste più importanti al mondo come Science, Nature e Cell. Ci sono anche casi d’impresa che hanno dato smalto al sistema, come Gentium, società biofarmaceutica, la cui fondatrice Laura Ferro è stata dichiarata dal Wall Street Journal donna dell’anno, oppure BioXell, azienda italiana sbarcata alla Borsa di Zurigo».
Le note dolenti per Dompè vengono dal sistema Paese, «un sistema che non considera il mondo scientifico cuore dello sviluppo, un valore capace di germinare altri valori, e quindi non lo aiuta. Basta guardare l’ultima Finanziaria, assolutamente insoddisfacente: sottrae risorse allo sviluppo e alla ricerca. Non è un problema di questo o quel governo – conclude il presidente di Farmindustria – ma di un Paese che non è incentrato sulla cultura della scienza. In Italia domina, anzi, una cultura ragionieristica che non si accompagna a investimenti che comportano 10-12 anni di rischio, quanti ne servono per sviluppare nuove molecole. E una su diecimila arriva sul mercato».
«Per quanto riguarda la ricerca siamo in grado di produrre quanto i nostri partner europei in rapporto ai fondi disponibili - dice Francesco Salvatore, presidente e coordinatore scientifico del Ceinge di Napoli, consorzio nato due anni fa per valorizzare le risorse biotech presenti sul territorio e gestirle con efficacia ed efficienza e dove oggi lavorano quasi 350 scienziati - ma sul versante industriale siamo una nullità, soprattutto rispetto al nord Europa. A fronte di una certa concentrazione di aziende in Lombardia e Veneto, in altre zone scarseggiano o proprio non ci sono come, per esempio, in Campania dove, invece, la presenza scientifica è molto alta e qualificata, basti pensare al Tigem o a Biogem, oltre al Ceinge. Ma anche il distretto lombardo, con la sue decine di imprese, è niente a confronto con quello di Cambridge dove se ne contano centinaia».

Per evitare che i successi siano seppelliti dalla polvere, per Salvatore «è necessario cercare dei meccanismi di interfaccia tra ricerca e impresa, e offrire strumenti di facilitazione a chi è in grado di trasformare le nuove scoperte in applicazioni industriali».
(2. Continua)

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