L’inviato delle Nazioni Unite, il nigeriano Ibrahim Gambari, ha incontrato ieri a Yangon la leader dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, agli arresti domiciliari ormai da anni. Il colloquio, che è avvenuto in una residenza del governo, è durato un’ora e 15 minuti. Nulla è trapelato di quanto i due si siano detti.
Prima di incontrare la signora Suu Kyi, Gambari era andato a Naypyidaw - il villaggio che per volontà della giunta è diventato capitale in sostituzione di Yangon (ex Rangoon) - dove sperava di essere ricevuto dal capo della dittatura militare di sinistra, il generale Than Shwe, il quale si è però rifiutato di vederlo. Ma l’Onu preme affinché questo contatto avvenga e forse, nelle prossime ore, Gambari riuscirà a parlare con il sanguinario despota birmano.
L’incontro tra l’inviato delle Nazioni Unite e il premio Nobel per la pace è stato probabilmente reso possibile dalle forti pressioni della Casa Bianca, che si è messa alla testa delle proteste internazionali per la violenza usata contro i manifestanti, a cominciare dai monaci buddisti che hanno dato il via alle dimostrazioni contro il regime. Washington aveva inoltre fatto sapere di ritenere inammissibile vietare il colloquio tra Gambari e la signora Suu Kyi, numero uno della Lega nazionale per la democrazia.
Stando a quanto scrive «Mizzima», l’agenzia di stampa che dà voce all’opposizione birmana, le autorità cercano di organizzare contro-manifestazioni di sostegno al regime «per impressionare Gambari». Con l’obiettivo di indebolire la protesta, il regime sta anche tentando di convincere i monaci più giovani e i novizi a lasciare i monasteri - quasi tutti chiusi - e a tornare dalle proprie famiglie.
La giornata di ieri sembra essere trascorsa senza scontri, ma generali continuano a usare il pugno di ferro: i militari hanno circondato il monastero Mayagone, alle porte di Yangon. Un sito degli esuli, «Mizzima News», parla di misure restrittive anche contro la maggior parte dei monasteri di Mandalay, seconda città della Birmania.
Un religioso del monastero Thayet Taw di Yangon ha detto al quotidiano britannico Daily Telegraph che i monaci buddisti della Birmania hanno ricevuto l’ordine dai loro superiori di non sfidare più la repressione dei militari e di rimanere nei monasteri. Non si sa quanti religiosi siano stati uccisi dall’esercito nella repressione dei giorni scorsi. Il numero dei morti, tra religiosi e civili, è alto, anche se non si ha, e quasi certamente non si avrà mai, un bilancio preciso delle vittime. «La gente è scesa nelle strade per dare voce alle loro richieste, anche se c’erano molti poliziotti con bastoni e pistole, ma ora il nostro abate ci ha detto di smetterla. Ha detto che non vuole vedere i suoi monaci morire».
In Birmania vive una minoranza cattolica. Si calcola che siano 650mila, pari all’uno per cento della popolazione. I cristiani, nel loro insieme, rappresentano il 4 per cento. La Chiesa cattolica ha ordinato ai suoi sacerdoti di non partecipare alle manifestazioni di piazza e alle attività politiche in atto in Birmania.
Ai fedeli riuniti ieri nelle chiese cattoliche di Yangon è stato letto un bollettino in cui si invitano sacerdoti e suore a non farsi coinvolgere nelle proteste, riconoscendo però ai fedeli la libertà di scegliere come comportarsi. Il bollettino contiene inoltre un appello a tutti i cattolici perché continuino a pregare e a offrire messe per il bene del Paese.
Un segnale di un apparente calo della tensione lo si ha con l’annuncio che è ripresa la distribuzioni di aiuti alimentari da parte del Pam (il Programma alimentare mondiale). Il governo ha dato luce verde alle operazioni, che erano state bloccate dopo l’inizio dei disordini.
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