La partita del Veneto è cruciale per i rapporti nel centro-destra ma anche per capire gli equilibri fra regionalisti e padanisti, e la solidità della leadership bossiana.
Questi ultimi punti sono i più interessanti.
Ovunque - dai Paesi Baschi alla Corsica - il mondo autonomista è dilaniato da particolarismi e divisionismi, e quello padano non fa eccezione. Il più grande merito di Bossi è stato di avere riunificato una galassia litigiosa in un solo movimento e in un solo progetto: per farlo ha dovuto impiegare il suo rude ma indubbio carisma e usare il pugno di ferro per schiacciare ogni tendenza centrifuga e particolarismo.
Il disegno originale era stato lucidamente delineato da Miglio: in una prima fase Bossi avrebbe dovuto liquidare ogni dissidenza e frazionismo per consolidare e rendere inattaccabile la propria posizione per poi - in un secondo tempo - favorire la formazione di una classe politica federalista in grado di utilizzare tutte le potenzialità delle vocazioni localiste e di costituire il nucleo umano della struttura federale della Padania futura, fatta di ampie autonomie tenute assieme dalla consapevolezza che solo con la dimensione macroregionale si può affrontare con successo prima Roma e poi la competizione globale. Allo stesso tempo si doveva, con un vero e proprio processo di «nation building», definire il disegno di Padania identitaria e culturale e non solo socio-economica.
Più attento ai suoi destini personali che a quelli del progetto, Bossi ha però protratto all’infinito la prima fase, quella del controllo ferreo della struttura, procrastinando sine die la condivisione delle responsabilità e relegando il processo identitario ai concorsi di bellezza e ai film di fantasy medievale. Così oggi abbiamo il paradosso di un partito che si professa liberista, autonomista e federalista ma che al proprio interno è rigidamente autocratico, piramidale e centralista: verrebbe da dire «leninista».
Per mantenersi saldo al potere, Bossi ha sacrificato molti degli uomini migliori delle autonomie locali, come il piemontese Gremmo, il ligure Bampi o il friulano Cecotti. Oggi ha un partito solido, in grado di gestire un buon numero di consensi ma incapace a superare una soglia ormai consolidata, e che difende la propria condizione di monopolio anche grazie agli sbarramenti delle leggi elettorali che ha fatto approvare.
L’autonomismo veneto è particolarmente vitale ma, anche per reazione al lombardocentrismo bossiano, è sterilmente regionalista e dilaniato dalle divisioni. Nessun movimento regionalista può sostituirsi al progetto padanista. Lo aveva capito con chiarezza Giorgio Panto (che aveva carisma, idee chiare e anche disponibilità di mezzi finanziari e mediatici) e solo la sua drammatica morte ha interrotto un disegno di collegamento con le altre realtà regionali, una sorta di «altra Lega» in grado di fare produttiva concorrenza.
Oggi Bossi ha il totale controllo della situazione ma è di fronte a una scelta drammatica.
Se in Veneto impone un candidato forte (Tosi o Zaia, vecchio amico di Panto) rischia di trovarsi una forte figura carismatica, un concorrente di valenza e popolarità sovraregionale in grado di ridestare interesse nella grande massa di autonomisti e di leghisti delusi rifugiati nell’astensionismo.
Una rinuncia rimpinguerebbe i suoi crediti personali presso gli alleati ma scatenerebbe i risentimenti della base con conseguenze imprevedibili.
Potrebbe designare un candidato più controllabile e meno pericoloso ma indebolirebbe sia la coalizione che il partito.
Una bella rogna! È condannato a vincere ma «con (tantissimo) giudizio». Un eccesso di successo potrebbe mettere in crisi il suo potere personale.
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