Bruxelles, intesa sul bilancio Ma il premier Monti strappa soltanto promesse

Sul "fiscal compact" passa la linea dura della Merkel.  Monti non ottiene che impegni generici sulla crescita. Il giudizio dei mercati: "Con la cura Monti Italia in recessione"

Bruxelles, intesa sul bilancio  Ma il premier Monti   strappa soltanto promesse

nostro inviato a Bruxelles

L’obiettivo di Monti: far partire il «cresci Europa» dopo aver sventolato il «salva Italia» e il «cresci Italia». Il premier arriva a Bruxelles ripetendo il suo mantra: va bene la disciplina ma il solo rigore senza sviluppo non serve. E incassa consensi e approvazioni: la pensano così i belgi che ieri hanno paralizzato la città, i sindacati di mezza Europa, il neo presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, il presidente della Commissione Ue Josè Barroso ma anche tutti gli altri capi di Stato e di governo arrivati in Belgio per trovare la quadra sul fiscal compact, che in serata viene data per «imminente».

Con l’accordo sulle nuove regole di bilancio, raggiunto a fatica a tarda notte e che si firmerà solennemente in marzo, s’è siglata la vittoria tedesca, inflessibile sul rigore. Monti ottiene che le norme per raggiungere il pareggio di bilancio non siano ancora più gravose del previsto: dal 2014 i Paesi con debito oltre il 60% del Pil devono ridurre la parte eccedente al ritmo di 1/20 l’anno, salvo fattori rilevanti, come già previsto dal six pact. «I compiti li stiamo facendo e li faremo tutti fino in fondo ma adesso è l’ora di aiutare l’Europa a crescere», il suo pensiero.

Lo dice da mesi e lo ripete in un faccia a faccia con Sarkozy e Merkel, durato meno di mezz’ora, prima dell’inizio dell’interminabile eurosummit. Lo fa mettere nero su bianco nella bozza di fiscal compact: «L’Europa deve fare di più per crescita e lavoro». Belle parole. Ma per adesso poco più che vuote. Il problema è che di eurobond non se ne può parlare perché Berlino si irrita e anche il «piano fondi Ue», messo in campo ieri, pare poca cosa. L’idea sarebbe quella di favorire la crescita attraverso l’utilizzo del tesoretto nelle cassaforti della Ue. Sarebbero 82 miliardi da distribuire in un biennio così: 4,2 miliardi alla Francia; 10,4 alla Spagna; 8 all’Italia; 5,8 alla Germania; 4,3 alla Grecia; 17,5 alla Polonia e 1,4 alla Gran Bretagna. Non grosse cifre e soprattutto non sono denari nuovi. Non solo: di recente il commissario Ue, Johannes Hanh, ha frenato gli entusiasmi già di per sé eccessivi: «I soldi sono molti meno perché è vero che quegli 82 miliardi non sono ancora stati versati; ma il tesoretto è vincolato a 455 programmi già in vita». In pratica resterebbero pochi milioni di euro: briciole. Ma la dichiarazione di intenti c’è: bisogna dare impulso al mercato unico, alla crescita delle piccole e medie imprese, allo sviluppo del commercio elettronico, al lavoro. E proprio sul lavoro è arrivata una proposta di Barroso: creare un euroteam che accompagni le riforme sul mercato del lavoro per quei Paesi, Italia inclusa, che hanno un tasso di disoccupazione elevata. Un semicommissariamento europeo in cambio di aiuti.

Così, mentre sul fronte della crescita Monti ottiene un «faremo» e poco più, sugli altri temi sul tavolo continua a farla da padrona la Merkel. La quale, per esempio, di un rafforzamento del fondo salva Stati ancora non ne vuol sentir parlare. «Perché devo far pagare ai tedeschi le colpe di chi non è in grado di tenere i conti a puntino e magari li trucca? Non un euro in più per i greci e quelli come loro», è il ragionamento della Cancelliera. La quale ieri ha un po’ ammorbidito le sue posizioni volte a chiedere il commissariamento di Atene (quasi tutte le cancellerie la valutano una sparata più che altro ad uso interno) ma nei confronti degli ellenici resta inflessibile: «La nostra pazienza ha un limite» è il messaggio di Berlino. Atene quindi rimane sul ciglio del baratro e rischia il fallimento da un momento all’altro. Un nodo serio che però non s’è voluto sciogliere ieri.

Ma ieri è riemerso un altro fatto evidente: l’Europa è una babele di interessi contrapposti. Il summit sarebbe dovuto terminare alle 19.

30 circa ma è andato avanti fino a notte per le resistenze della Polonia: «Non accettiamo alcun fiscal compact se anche i Paesi che non fanno parte dell’euro non avranno voce in capitolo sulle decisioni». Barricate della Francia e risolini della Gran Bretagna che fin da subito s’è chiamata fuori. E sulla crescita è stata la Svezia a mettersi di traverso: «No, noi non la firmiamo». Insomma, tutti contro tutti. O quasi.

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