Il bulldozer del nuovo Israele

Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon si recò sulla spianata della moschea al Aqsa, sito del vecchio Tempio di Gerusalemme, dando il via alla reazione palestinese nota appunto come intifada al Aqsa. Con questa visita, a scopo elettorale, mosse il primo passo sulla strada che il 6 febbraio 2001 lo avrebbe insediato come premier al posto del leader laburista Ehud Barak. Trattandosi di un’elezione diretta, Sharon non disponeva dell’appoggio di un Parlamento ancora controllato dai laburisti. Lo ottenne con le elezioni legislative del gennaio 2003 che sgominarono i laburisti e diedero per la prima volta nella storia di Israele al partito Likud, co-fondato da Sharon assieme a Menahem Begin trenta anni prima, la maggioranza relativa alla Knesset. Era uno dei periodi più neri per lo Stato di Israele minacciato nella sua stessa esistenza dal terrorismo palestinese e dalla freddezza dell’amministrazione Bush a cui Sharon aveva ricordato, dopo il suo primo discorso sul Medio Oriente, che «Israele non era la Cecoslovacchia».
Tutto cambiò con l’11 settembre 2001, che senza diminuire la violenza dell’intifada trasferì Israele dalla periferia diplomatica di Washington al centro delle sue preoccupazioni politiche e strategiche. Sharon ruppe gli indugi impostigli dagli Stati Uniti nei confronti di Arafat (che riteneva organizzatore e sostenitore dell’Intifada) dopo un sanguinoso attacco palestinese a un albergo di Nethanya in cui perirono 28 israeliani mentre celebravano la cena rituale di Pasqua. Sharon autorizzò la prima grande offensiva anti-terrorista denominata «scudo difensivo» rioccupando le città palestinesi, evacuate a seguito degli accordi di Oslo e iniziando la tattica dell’assassinio mirato dei capi dei gruppi terroristici che portarono all’uccisione del fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, del suo successore Ahmed Rantisi, alla distruzione delle basi terroristiche nella città di Jenin e alla cattura e successiva condanna a vita di Marwan Barghuti, il vero organizzatore dell’Intifada per conto di Arafat.
Il 30 aprile 2003 Sharon aveva accettato di mala voglia il piano quadripartito (Usa, Russia, Ue e Onu) per mettere fine al conflitto israelo-palestinese noto col nome di Road Map. L’incontro il 4 giugno ad Aqaba fra di lui, Bush, re Abdallah e Abu Mazen non mutò nulla perché il premier palestinese - che si era impegnato a mettere fine al conflitto armato - venne subito esautorato da Arafat.
Sharon si rende conto che per liberarsi dalle strettoie della Road Map occorreva che Israele prendesse l’iniziativa politica. Lo fa con un gesto drammatico fra l’incredulità generale alla conferenza di Herzlya (luogo della riunione attuale della dirigenza israeliana), nel dicembre 2003, annunciando la sua decisione di evacuare unilateralmente i coloni dalla striscia di Gaza. Il 5 gennaio 2005 Sharon ripete la proposta davanti al comitato centrale del Likud aprendo uno scontro con il suo stesso partito e la destra israeliana. Ma va avanti attraverso contrasti personali, crisi di governo, licenziamento di ministri, inserimento dei laburisti nella coalizione governativa fino all’attuazione dello sgombero dei coloni, che segna la fine del sogno di quel grande Israele per il quale Sharon si era sempre battuto.
Accusato di tradimento, di aspirazioni dittatoriali, dopo molte esitazioni Sharon accetta di anticipare le elezioni legislative che vengono fissate dal Parlamento per il 28 marzo del 2006. Il Likud si rifiuta di appoggiare la nuova politica del premier tesa ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele e nuove frontiere, definitive, raggiunte con accordi territoriali che permettano agli israeliani di mantenere sul territorio nazionale una parte degli insediamenti ebraici in Cisgiordania (difesi dalla costruzione di una barriera anti-terrorista, la cui costruzione viene condannata dal Tribunale internazionale dell’Aia).
Si giunge così, nel dicembre del 2005, alla drammatica uscita di Sharon dal Likud e alla creazione di Kadima, un partito che la maggior parte degli «esperti» politici israeliani considerano una follia elettorale. Si rivela invece nei sondaggi come un enorme successo. Sharon si trasforma nel nuovo Ben Gurion, capace di ricostituire un centro laico moderato che tiene a bada i radicali di destra e di sinistra liberando, come scrive Amos Oz, «noi laici moderni» dal giogo dei coloni. Gli effetti sono enormi e immediati. Sharon passa nel corso di un anno dalla demonizzazione alla beatificazione. Gli investimenti esteri in Israele fanno un balzo in avanti. Gli attacchi palestinesi continuano, ma meno frequenti e micidiali e soprattutto il numero di quelli sventati cresce in modo esponenziale.
L’Europa muta la sua posizione tradizionale di gelido riserbo verso Israele bloccando la pubblicazione di un rapporto critico sulla condotta israeliana verso i palestinesi a Gerusalemme. Nessuno mette in dubbio che Sharon sarà il grande vincitore delle prossime elezioni e che sotto la sua guida – concorde Mubarak - un’epoca nuova potrà aprirsi per il Medio Oriente.
Un ictus «passeggero» e un altro più grave sottovalutato dai famigliari provoca quello che sei guerre, l’odio, le minacce di attentati, le preghiere «ecumeniste» ebraiche e islamiche di morte dei suoi nemici non sono mai riusciti a realizzare né sul campo di battaglia né su quello politico.

L’uomo che i suoi sostenitori nelle manifestazioni pubbliche esaltavano al grido «Arik Arik Meleh Israel» (Arik re di Israele) giace ora su un letto di ospedale lottando contro la morte mentre il Paese e i grandi delle nazioni si interrogano sull’avvenire. «O vanità delle vanità - dicono le Sacre Scritture - tutto è vanità».

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