Bush a Bin Laden: «L’America ti troverà e ti porterà in giudizio»

Nel discorso per l’11 settembre il presidente americano ribadisce anche la centralità della questione irachena nella «guerra al terrore»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

«Prenderemo Bin Laden». George Bush rinnova la promessa, spostandola un po’ al centro delle sue allocuzioni dei giorni scorsi in ricordo della tragedia di cinque anni fa alle Torri Gemelle. E questo anche se nel suo discorso dell’altro giorno dalla sala Ovale egli ha dato l’impressione di voler riportare l’Irak al centro del discorso. Se il capo della Casa Bianca, e soprattutto i suoi consiglieri e i curatori delle sue public relation, hanno aggiustato il tiro ventiquattro ore dopo, è per due motivi concorrenti.
Il primo è la iperattività propagandistica di Al Qaida e del suo capo proprio nell’anniversario, con l’occupazione di un totale di due ore di tempo televisivo. Concioni prevalentemente a uso interno ma che sono state percepite da qualcuno come una specie di «controrelazione», di risposta diretta al presidente Usa con una conseguenza propagandistica che propone una sorta di «dibattito». Era dunque opportuno per Bush ristabilire le distanze e rimettere a fuoco la figura di Osama Bin Laden, non come un «interlocutore» o un «avversario» e neppure come un nemico, ma principalmente come il capo di una organizzazione criminale che ha fornito ed esibito le prove documentate del suo delitto. «L’America ti troverà e ti porteremo davanti alla giustizia». Questo il messaggio di Bush a Bin Laden.
Il secondo motivo è di tipo politico. Il discorso di Bush non è stato accolto dalla unanimità dei consensi . Buona parte dei mass media ha reagito in modo non dissimile da quello di uno dei leader storici del Partito democratico, il senatore Kennedy, che ha detto che Bush «dovrebbe vergognarsi per aver usato un giorno di lutto per andare a pesca di voti». Un’opinione estrema così come spesso lo è quella di Kennedy anche all’interno del suo partito; ma che tuttavia si inquadra in un dibattito serrato che gli ultimi discorsi presidenziali hanno suscitato. Mancano meno di due mesi alle elezioni per il Congresso, i repubblicani sono o appaiono in difficoltà, una polarizzazione del dibattito in senso patriottico non può non metterli in imbarazzo. Mancano ancora le cifre più importanti, le statistiche su come i cittadini Usa giudicano il discorso. L’esperienza insegna però che nelle precedenti occasioni questa strategia ha funzionato, giocata sempre su un doppio messaggio emotivo: l’America è più sicura ma resta in pericolo, il terrorismo è stato sconfitto ma continua a essere una minaccia.
Il punto debole è ancora una volta l’Irak. Argomento su cui Bush non poteva non essere sulla difensiva. Questa volta egli ha abbandonato i toni trionfalistici e ha ripiegato invece sull’importanza della posta in gioco, sulla centralità di Bagdad nella «guerra al terrore».

L’ultimo argomento è inoppugnabile, ma ha anche ridato corda a una perplessità: perché mai l’America è impantanata da tre anni e mezzo in Irak, che con Bin Laden non c’entra, e ha a questo scopo diluito la propria presenza militare in Afghanistan, il centro di potere di Al Qaida?

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