Washington - Non so quanto tempo abbia avuto nelle ultime ore George W. Bush per pensare a Chesley B. Sullenberger. Dunque per invidiarlo: un uomo che si è trovato nelle mani un compito difficilissimo a causa di un incidente cascatogli addosso dal cielo di New York e che ha compiuto forse non il miracolo ma certo il capolavoro, facendo posare l'aereo che pilotava sull'acqua ghiacciata nel centro di Manhattan infilandolo fra i grattacieli e tenendolo a galla salvando tutti. New York, la stessa metropoli dal cui cielo caddero sette anni fa cento saette di fuoco e tanti morirono e l'aereo della Superpotenza rischiò di affondare e su di lui, George W. Bush, cadde un compito immane: evitare, vendicare, prevenire. Non ci sarebbe riuscito nessuno appieno.
Lui ci provò troppo e ci consumò tutta la sua presidenza, la sua popolarità, il suo prestigio. Anche se poi nel compito minimo ed essenziale riuscì e ancora oggi se ne vanta non a torto: non c'è stato un bis dell'11 settembre finché lui è stato al timone dell'America. Il resto, tutto il resto, è andato storto. I due mandati di questo Bush si possono purtroppo rappresentare come una linea di congiunzione fra due catastrofi: dal dies irae dei terroristi al crollo da altri grattacieli di Manhattan proprio alla fine del suo mandato, a una crisi economica che forse non ha precedenti in ottant'anni.
Con l'acidità che a volte accompagna lo humour, un commentatore televisivo americano ha sintetizzato l'«era Bush» in un couplet che in inglese contiene la rima: «From nine Eleven to Chapter eleven», il paragrafo che riguarda la bancarotta. Ma la vicenda umana di Bush non si risolve in una battuta possibile soltanto per la estrema impopolarità di questo presidente negli ultimi quattro anni, subito dopo la sua rielezione. È una vicenda complessa come tutti i drammi umani, anche quando riguardano personaggi che si rifugiano in una più o meno artefatta semplicità. George Bush è stato anche vittima dell'immagine che ha voluto dare di se stesso, del suo «snobismo» anti intellettuale, del suo populismo costruito.
Discende da una delle famiglie più ricche e illustri d'America e ha giocato sempre a fare il cowboy. Aveva a disposizione tutte le fonti delle idee e si è vantato di averne poche, anche meno di quelle che in realtà conosceva. Solo negli ultimi tempi ha lasciato, per esempio, trapelare un segreto ben custodito: legge libri. Decine all'anno, libri importanti, di storia, di letteratura anche straniera. Ha lasciato a lungo che si credesse che la sua unica carta stampata fosse un «manuale da campo» per i cappellani militari australiani, compilato ai tempi della sfortunata spedizione di Gallipoli durante la Prima guerra mondiale. Ha lasciato credere di essere un know-nothing, che antepone ogni «virile» azione, anche sbagliata, a ogni riflessione. Coloro che hanno costruito la sua immagine, seguendo forse le sue istruzioni ma soprattutto trascinati da un perverso entusiasmo, lo hanno presentato in modo da praticamente denigrarlo. Ritenevano forse che danneggiasse la leggenda che venivano creando ricordare che nella sua carriera politica prima della presidenza George W. Bush era sempre stato un conciliatore.
Il suo successo di otto anni come governatore del Texas era basato anche sulla sua non comune capacità di armonizzare le sue vedute con quelle degli avversari, la sua disponibilità al compromesso e, dunque, alla riflessione. Sono stati gli eventi, anzi un evento a cambiarlo, a trasformare il Conciliatore in un Vendicatore. Era cambiato ed era convinto che fosse cambiato il mondo. Aveva visto sbriciolarsi sotto un gesto di terrore la straordinaria «sicurezza» in cui era culminato il Secolo Americano. L'America aveva vinto tutte le sfide, aveva fatto cadere dopo un assedio di cinquanta e non di dieci anni la Troia del comunismo e della Superpotenza rivale. Aveva vinto tutto. Ora poteva anche permettersi di rilassarsi da quelle tensioni, di essere, sono parole di George Bush «più umile».
Il discorso inaugurale dopo la sua prima elezione era stato misurato, ripiegato soprattutto sui problemi interni, su come raffinare l'America dopo il trionfo. Poi è arrivato invece improvviso l'allarme, il dies irae: finito il lungo, godibile decennio succeduto alla Guerra Fredda un altro ciclo di guerre cominciava di cui non si vedeva la fine. Bush non era preparato a questo, forse nessuno lo era. L'arsenale di idee della sua memoria storica era vuoto, pronto dunque a riempirsi d'urgenza con una spiegazione, una interpretazione, una strategia. Gliela portarono i «neoconservatori», intellettuali di tutt'altra formazione e di diversa sensibilità. Egli li adottò a scatola chiusa, i suggerimenti sacrosanti come quelli più discutibili: l'Irak, la «guerra preventiva», le misure repressive passate sotto il nome di Guantanamo che tanto hanno indebolito non l'immagine ma una delle grandi forze dell'America, il «soft power».
Per qualche tempo egli fu in sintonia con l'opinione pubblica. Nessun presidente fu popolare quanto George W. Bush un anno dopo le Torri Gemelle.
Nessun presidente è mai stato impopolare così a lungo per tanti anni dopo. Dicono che George Bush abbia spesso pianto. «Su una spalla di Dio», ha precisato lui. La fede può combinarsi con l'amarezza nell'aiutarlo, nel lungo tempo che gli rimane, a capire il mondo e se stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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