Washington - La guerriglia ha commemorato con un fuoco pirotecnico di attentati e stragi, da una moschea sciita di Bagdad agli impianti petroliferi di Kirkuk, l’ingresso della guerra in Irak nel suo quinto anno. Il governo americano ha scelto la strada opposta, evitando di sottolineare troppo la portata dell’anniversario, avvertendo che non ci sarà una soluzione a breve termine ma lasciando affiorare, per la prima volta dopo diversi mesi, un po’ di fiducia. Oratore ufficiale della commemorazione, naturalmente, il presidente George W. Bush, con una breve comparsa in televisione, senza tracciare bilanci ma ribadendo le mete: la strategia per riportare la sicurezza a Bagdad e nell’Anbar, roccaforte degli ultrasunniti, è ancora in uno stadio preliminare, «ma ha portato i primi risultati. Non ci vorranno giorni né settimane, ma mesi». La nuova strategia affidata al generale David Petraeus e in gran parte da lui ideata, «è la migliore strategia, quella che forse sarebbe stato meglio utilizzare fin dall’inizio».
Occorre però una continuità nello sforzo. Occorre soprattutto che il pubblico americano «abbia un altro poco di pazienza. La strada che battiamo è ancora difficile e dura ed è comprensibile che chi ha fretta sia attratto da una formula semplicistica come il ritiro, dunque l’accettazione della sconfitta. «Ma questo sarebbe un grave errore e soprattutto metterebbe a medio termine in grave pericolo la sicurezza degli Stati Uniti: il nemico potrebbe stabilire in Irak una nuova base da cui attaccarci». Parole rivolte soprattutto al Congresso, che si appresta a votare sulla prima di una serie di misure, proposte dai democratici, che, legando agli stanziamenti di bilancio l’appoggio all’invio di rinforzi, imporrebbe una data per il ritiro definitivo di tutte le forze Usa dall’Irak, entro il settembre 2008.
Le poche buone notizie finalmente in arrivo dal fronte potrebbero, per quanto precarie, aiutare Bush a guadagnare tempo: gli attentati sono diminuiti negli ultimi due mesi, le forze Usa hanno stabilito qualche nuovo punto d’appoggio a Bagdad e, soprattutto, l’esercito iracheno ha riaperto le caserme ai soldati di Saddam Hussein «epurati» dopo l’occupazione Usa.
Un’opera di «riconciliazione» che anche il primo ministro di Bagdad, Nouri al Maliki, ha sottolineato come «vitale» perché sia possibile «imporre la legge, che potrà avere successo solo se accompagnata da sforzi in questa direzione». Rimane critica, però, la situazione politica, sia a Bagdad sia in patria.
Un sondaggio condotto dalla Bbc in Irak mostra che solo 18 iracheni su cento hanno fiducia nell’America (il minimo dall’inizio della guerra a oggi), che una maggioranza ritiene «giustificati» i gesti terroristici e che oltre il 50 per cento degli iracheni è del parere che in materia di «sicurezza» la situazione potrà migliorare solo dopo il ritiro dall’Irak di tutte le truppe straniere, americane in testa. Negli Usa solo il 35 per cento degli intervistati dalla Cnn «guarda con fiducia» al conflitto, che all’inizio era approvato dall’83 per cento. Il 61 per cento degli americani ritiene che non sia stata una buona idea invadere l’Irak.
Una deriva che investe ora, sia pure impropriamente, il teatro di guerra afghano. Solo 53 cittadini americani su cento sostiene oggi quell’impegno militare (molto più giustificato che non l’avventura irachena) mentre il 55 per cento giudica che neppure in Afghanistan le cose «vanno bene».
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