BUZZI Buio in sala e luce sul cinema

Consigli ad attori e costumisti, battute salaci e un elogio della leggerezza

BUZZI Buio in sala e luce sul cinema

Appunti per la costruzione di un film. O di un romanzo. O di un edificio, se ad annotarli sul suo quadernetto decine e decine di anni fa era l’architetto fresco di laurea al Politecnico, nuovo all’avvio professionale nello studio di via dell’Annunciata, scaraventato dallo scoppio della guerra negli studi di Cinecittà e lanciato - un po’ per caso, ma più per scherzo e per gioco - verso il debutto nella prosa dal rimbalzo sul set dove bazzicavano Alberto Lattuada, Federico Fellini, Mario Soldati e Emilio Cecchi.
Aldo Buzzi, oggi splendido 96enne, aveva poco più che trent’anni quando fu chiamato come assistente di regia dal Lattuada alle prese con Giacomo l’idealista. Accanto al Maestro e tra i divi, il giovane comasco osservava. Ascoltava. Imparava (da Cecchi) a montare i testi e a tagliarli: «Cancellava con una serie di aste parallele molto fitte. Una pagina con molte cancellature somigliava a un’acquaforte di Morandi». Insegnava (a Fellini) a sostituire i calzini corti fantasia con calze lunghe e nere: «Da allora non ha più avuto problemi. (In questo campo)». E prendeva nota, sul Taccuino dell’aiuto regista - pubblicato da Hoepli nel ’44, perduto tra le macerie dopo la guerra e riproposto ora in anastatica da Ponte alle Grazie con la collaborazione della Cineteca italiana che ha fornito i bellissimi fotogrammi -, delle regole del mestiere di scrivere, dei segreti dell’arte di vivere: dei trucchi del cinema, le alchimie dello humour, gli abracadabra della letteratura. Da questo breviario di vecchio scrittore, diario scanzonato di spettatore, vademecum per antichi cineasti, bloc notes di poetico umorista, si può ancora pescar fuori, in alfabetico disordine, molto più di un decalogo. Eccolo.
AZIONE
Ipse dixit: Dal «ciak, si gira!» in poi è il succo di tutta la sceneggiatura, la sostanza di tutta la pellicola, l’ingrediente fondamentale della storia e la regola numero uno di chi la racconta. Non per niente la ribadisce col passaparola una lunga catena di auctoritates. Lo disse Margrave, ripete Buzzi, in Come si scrive un film, citando per analogia Plutarco, il quale ricorda che Demostene «quando gli fu domandato quale fosse la prima parte di un’orazione, rispose - azione - e per la seconda rispose - azione - e per la terza nuovamente rispose - azione -».
BUIO
Sul grande schermo può durare non più che pochi attimi: il tempo «in cui si trattiene il respiro («un’oscurità mantenuta troppo a lungo fa l’effetto dell’aria viziata»). Nessuna meraviglia, dunque, se «dopo aver soffiato sull’ultima candela, l’attore è ancora visibile». Avvolto in una «diffusa luce lunare» che si potrebbe chiamare «buio convenzionale cinematografico».
COLPO DI TOSSE
«Val più un colpo di tosse, tossito bene, che uno scaffale con cento bottiglie». E, insomma, nei locali troppo arredati, gli ambienti gremiti, «gli esterni e gli interni pieni fino all’orlo» - «ricchezza della miseria» - si creano vane e vistose illusioni. È là che «facilmente si nascondono il malfattore e il cattivo regista».
DESCRIZIONI
Quando non sono mischiate all’azione, lo spettatore le salta mentalmente (e fa fatica). «Come quelle pagine di Salgari da cui Yanez si è per un momento allontanato lasciando soli gli squallidi elenchi di piante della foresta vergine e dei mille e mille variopinti ucc... ».
EFFETTO
Aumenta con un po’ dell’effetto opposto. «Un cigno sporco sul collo dà l’idea del bianco assoluto. Un bicchier d’acqua nel deserto. Un sorriso fra le sbigottite superstiti di un disastro». «Non “si sarebbe sentito volare una mosca”, ma “si sentiva volare una mosca”».
FATICHE
Di superare i primi metri della pellicola. Di attenuare le luci in eccesso. Di cancellare le correzioni che non passano inosservate. Di riannodare il filo che correva così bene e si è rotto. Ecco gli sforzi da risparmiare senza riserve allo spettatore dimentico «d’essere al cinematografo». Col minimo - faticosissimo - ostacolo, tornerà «nella sala piena di gente». Rivedrà «i lumi rossi delle uscite di soccorso». Sentirà «le poltroncine che scricchiolano»...
GRAVITÀ
Da eliminare, come la fatica. «Il fotogramma naviga senza peso sullo schermo». «Siamo molto sensibili alla leggerezza. La troviamo nei nostri autori preferiti: Neutra, Mansfield, Sinisgalli... ». E il Taccuino è dedicato «Al leggero ricordo di Notti Messicane e Pirata Ballerino».
HOGARTH
Maestro del Disegno e della composizione di scomposti tumulti. Efficace di tanto in tanto il confronto con la pittura. Anche se: «Questi confronti sono fatti indipendentemente da qualsiasi legame Cinema-Pittura (spesso il cinema è stato danneggiato da simili falsi parallelismi). Ma qualche volta gli esempi presi fuori casa sono più probanti».
INQUADRATURA
«Non a quadro definito, ma come particolare di una scena maggiore. (Il contrario della Sacra famiglia di Michelangelo)».
LUCE
«È l’ossigeno del film». Perciò il buio toglie il fiato. Ma certe volte, o almeno una volta, si respirava come con le branchie: «La luce diffusa dall’alto del vecchio cinema (luce da acquario, luce per i pesci e per gli attori muti)».
MIGNOLO
«Se un attore entra col solo dito mignolo nel quadruccio, lasciamocelo se non vogliamo sentire la mancanza del suo dito e dell’azione che ha sui vicini. Il bordo del fotogramma non dev’essere un recinto».
NATURA
«Fotografata così com’è non assomiglia mai a se stessa». Per questo c’è chi non uscirebbe mai dal teatro. Mai confondere il cinematografo col documentario: «Che col cinematografo ha in comune solo la macchina».
ORIZZONTI
«Quelli aperti nuocciono alla fantasia». Il Maestro consente al perimetro dell’inquadratura, al vincolo del formato 16 x 22, «fisso come lo scartamento dei binari ferroviari». E, guardando dalla finestra i tetti che gli coprono il cielo: «Tutti questi comignoli fumano per farmi piacere».
PANORAMA
Superfluo. «Molti filmetti hanno tentato di tenersi su appoggiandosi a Capri o ai laghi lombardi... I buoni registi, dopo una fermata per ammirare il panorama, cercano un altro posto per lavorare».
QUANTITÀ
«Locali grandi: pochi attori. Locali piccoli: molti attori. Le lotte acquistano vigore dalla vicinanza delle pareti, che ricacciano continuamente i combattenti nella mischia».
RAPIDITÀ
«Il tempo costa molto». Fare cinema significa «riparare (rapidamente) i più strani guasti; trovare (rapid...) i più strani oggetti; calmare (rap...) i più strani capricci»...
SGUARDO
Sulla Scena come in una Serratura: «Al buio applichiamo non visti l’occhio a un enorme buco. Lo spettatore è indiscreto, ma la fortuna lo protegge: gli attori non si accorgono di lui». Se guardano in macchina, però, gli frugano «direttamente nei visceri».
TRUCCO
«Far lavorare meno i truccatori (e meglio)». Con un’eccezione: «Boris Karloff - sul faccione di Frankenstein - stucca».
UNIFORME
Nuoce l’eccessiva diversità nei costumi. Ma «un costume uguale, indossato da personaggi diversi (alti e bassi, agri e grassi...) genera una piacevole confusione».
VIVERI
Poteva trascurarli l’autore di L’uovo alla kok? «Cibi e bevande devono essere appetitosi e il più possibile innocui (es: invece di vino, acqua e tamarindo)».


ZAMPIRONI
Come pure «scalette, flit, stracci (sporchi e puliti) chiodi, pennelli e colori», come «il medico e il sacerdote» e come, niente affatto ovvio, «le comparse e gli attori», in scena devono esserci sempre.

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