Lord Byron, di cui ricorre il bicentenario della morte a Missolungi, mentre combatteva per la libertà della Grecia, è uno di quei poeti la cui vita si intreccia inscindibilmente con l'opera. Sprezzante, beffardo, dandy, sportivo, esibizionista, trasgressivo, cinico, generoso, eroico, pieno di contraddizioni, guai a non rivolgersi a lui con la deferenza che spetta a un Lord, ma alla Camera dei Pari è lui che difende gli operai luddisti stritolati dall'avvento delle prime macchine: tutto questo è Byron. E la sua opera lo rispecchia, con il suo successo e la sua influenza sullo spirito europeo, tanto che Goethe lo adombra nel personaggio di Euforione, nel Faust II. Arrivato in Italia, «paradiso degli esuli», non rinuncia al suo fastoso tenore di vita, tra palazzi, servitori, carrozze, serragli, yacht. E amanti.
Proprio alla sua amante Teresa Gamba, sposa del conte Guiccioli di Ravenna, è dedicata quest'opera, La profezia di Dante, tradotta oggi per la prima volta (Luni Editrice, pagg. 96, euro 13, a cura di Anna Pensante). Scritta nel giugno del 1819, in fretta, come per un pegno dovuto non solo alla contessa Guiccioli ma anche alla città di lei, dove è la tomba di Dante, quest'opera è un poema in quattro canti in terzine, sontuoso e oscuro, corrusco e magniloquente, con lampi di grande poesia shakespeariana. Dove la figura di Dante acquista una dimensione politica e profetica, in linea con gli interessi ferventi intorno a lui, in Italia e all'estero, dopo la lunga disattenzione denunciata da Frederich Schlegel. Byron dà direttamente la parola a Dante, come farà più tardi Victor Hugo nel suo La vision de Dante, compresa in La Légende des siéèles. Ed eccolo «vecchio esule, severo e altero», che invoca la sua Firenze, che voleva grande e libera, nuova Gerusalemme, e che lo ha bandito e condannato a morte. È amara la maledizione della patria a «colui che per quella patria morirebbe», e Dante, esule ma non schiavo, è costretto a vagare ramingo, quando «persino i lupi hanno una tana», e a sentire in cuore tutta la solitudine dei re.
Dopo Firenze, Dante invoca l'Italia, dai campi perennemente d'oro, che anche arati soltanto dai raggi del sole basterebbero per essere il granaio del mondo. Questo paese depredato e invaso, che le Alpi non hanno protetto abbastanza, potrà dare al mondo uomini saggi, arditi, generosi, valorosi, grandi navigatori, scopritori di nuovi mondi, ma attende ancora il Salvatore mortale che la renderà libera. Qui la profezia del Dante di Byron è in sintonia con i sogni dei primi patrioti e carbonari che il poeta inglese ebbe modo di cominciare a frequentare proprio attraverso il fratello della sua amante, il conte Pietro Gamba. L'immagine dell'Italia che riavrà sul capo il diadema antico che le spetta e che sino ad ora è stato «scambiato e indossato da sempre nuovi barbari» non richiama «l'elmo di Scipio» del canto di Mameli?
La poesia diventa profezia quando cessa di essere serva. Byron condanna il poeta che avvilisce la sua ispirazione e castra la sua anima vivendo troppo vicino al trono, condannato così ai «gorgheggi dell'adulazione». Un sentimento simile aveva espresso il nostro Vittorio Alfieri in Del principe e delle lettere, che colpevolmente in Italia non legge più nessuno, e, nella Vita, con la celebre immagine del povero Metastasio che fa la sua «genuflessioncella d'uso» alla corte di Vienna. Per il Dante di Byron poesia è altra cosa. Ed ecco che la profezia, che nel Dante di Hugo sfocia in un discorso propriamente politico e anticlericale con la condanna di papa Mastai-Ferretti, qui prende una piega squisitamente letteraria: vengono profetizzati Petrarca, il capostipite dei poeti amanti, Ariosto, che colmerà la terra delle gesta di cavalleria, e Tasso, di umore più dolce e più triste, «il poeta laureato di Cristo», che ha riversato la sua anima in Gerusalemme e per dolce ricompensa è tenuto prigioniero con la scusa di proteggerlo dalla sua pazzia. Tasso è figura chiave dell'immaginario romantico: una tragedia gli era già stata dedicata decenni prima da Goethe. E quando Byron fa dire a Dante che in Ariosto «l'Arte si trasforma in Natura/ per la trasparenza del suo sogno luminoso», mostra di essere capace anche di esemplari finezze critiche.
In definitiva, è la poesia che salva e che redime le brutture della storia. Il suo amico Shelley, meno ricco e famoso di lui, ma animato da un fuoco di intransigenza più assoluta, sosterrà di lì a breve, in Difesa della poesia (1822), che «i poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo». Byron qui, tre anni prima, fa dire a Dante qualcosa di analogo: «Perché cosa è la poesia, se non creare/ per un traboccare di sentimenti, buoni o cattivi, e ambire/ a una vita eterna oltre il nostro fato/ a essere il nuovo Prometeo della nuova umanità?». Per essere un nuovo Prometeo, Byron partì per sostenere la causa della libertà dei Greci e ci rimise la vita.
La causa della libertà italiana ebbe invece questo suo poema in terzine dantesche, dove Dante profetizza: «il genio del mio paese svetterà/ come un cedro che si erge sulla terra desolata». Forse attraverso Byron profetizza la fortuna della sua opera, che per durata, irradiazione, universalità, si erge davvero, tra le opere sacre dello spirito umano, come la più sacra.
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