C'è qualcosa che affiora nell'acqua gelata: una notte di morte nel Rio dei mendicanti

Un uomo solitario rema nel gelo dell'alba in una delle zone più povere della Venezia del Settecento, all'improvviso emerge un corpo senza vita

C'è qualcosa che affiora nell'acqua gelata: una notte di morte nel Rio dei mendicanti

«Il cimitero di Venezia» (Newton Compton, pagg. 320, euro 9,90) il nuovo romanzo storico di Matteo Strukul sarà in libreria da domani è l’inizio di una serie di romanzi in cui il notissimo pittore Canaletto sfrutta la sua arte per indagare.

Era stata una notte da lupi.

Sante era in piedi sulla barca. Spingeva in avanti il grande remo. Il cielo andava screziandosi di rosa. L'aurora si rifletteva sulla laguna e pareva rivelare la calotta molle di una gigantesca medusa, quasi quest'ultima riposasse sotto il ventre liquido di Venezia. Fino a qualche giorno prima, il grande specchio trasparente era stata un'unica lastra gelata. Era già accaduto. I vecchi raccontavano che altre volte i veneziani avevano dovuto rompere il ghiaccio per poter tornare a spostarsi sull'acqua. E ora, dei grandi banchi dei giorni precedenti, formatisi quando la cortina gelida si era ricoperta di venature scure fino a spezzarsi, restavano solo alcune placche galleggianti, simili alle tracce cangianti di un fantasma.

Faceva ancora un freddo terribile, malgrado la temperatura si fosse alzata. Il Rio dei Mendicanti era un unico nastro livido. Un vagabondo, avvolto in un vecchio tabarro scuro, talmente consunto da suggerire che le tarme l'avessero divorato un pezzo alla volta, barcollava su un lato del canale. Teneva in una mano una lucerna che ondeggiava con il suo debole bagliore. Sante non se ne curò. Non era certo una sorpresa vedere un miserabile in un luogo come quello.

Le masse scure dei falansteri e delle baracche cadenti prospicienti lo squero s'innalzavano verso il cielo, quasi i poveri si fossero affannati a costruire un piano sull'altro nel disperato tentativo di toccare le mani di Dio. E, così facendo, ottenere da lui una grazia o un perdono che, purtroppo, non era mai arrivato. Non che avessero chissà quali colpe, divorati com'erano dalla fame e dall'indigenza, sorelle meretrici, pronte a fare strame di chiunque in quella zona.

Il bucato era messo ad asciugare e la biancheria e i vestiti, pieni di toppe e strappi, venivano schiaffeggiati dal vento gelido che li sollevava come rigidi stracci, appartenuti a un girone di dannati. A mano a mano che il sandolo avanzava sull'acqua, una luce come di febbre andava spandendosi tutt'attorno, e l'aurora cedeva così il passo ai fremiti malati dell'alba. Qualche cirro di fumo usciva dai comignoli. La piccola imbarcazione scura procedeva con una lentezza esasperante, ma Sante non aveva voglia di remare con maggior vigore. Era stata una notte senza sonno ed era rimasto a guardare le travi marce del soffitto mentre la fronte gli si copriva di sudore ghiacciato. La paura di non riuscire a mettere insieme la cena gli aveva impedito di chiudere occhio. E i morsi della fame avevano fatto il resto.

Infine, volse lo sguardo verso la grande facciata di San Lazzaro e l'Ospedale dei Mendicanti, lasciandoli sfilare di lato.

Da tempo si riprometteva di non abitare più a Castello. Quel sestiere, purtroppo, era il più malfamato di Venezia e, negli anni, era divenuto la sentina di una città che pareva desiderare ardentemente la propria morte, ripromettendosi di inabissarsi da un momento all'altro. Le feste sfrenate, il carnevale quasi senza fine, la corruzione e il vizio che albergavano fra quelle calli nelle quali ogni giorno parevano fiorire nuovi ridotti e bordelli: tutto sembrava raccontare di una corsa contro il tempo, nel disperato tentativo di trovare una disgregazione definitiva.

La sua mente tornò alle sue legittime aspirazioni di cambiare casa: erano destinate a infrangersi contro i prezzi esorbitanti delle abitazioni. Uno come lui, un semplice calderaio, non aveva alcuna possibilità di coltivare simili speranze. Doveva invece accontentarsi del modesto stambugio in cui viveva con sua moglie e i tre figli. Sospirò.

A un tratto, mentre continuava a remare stancamente, con la testa ancora piena di preoccupazioni e pensieri, sentì la barca urtare contro qualcosa di solido. L'impatto non fu dei peggiori ma, sorpreso da un simile fatto e distratto dalle riflessioni di qualche istante prima, rischiò di perdere l'equilibrio e di finire in acqua. Con un movimento ben calibrato del busto e spostando il peso, riuscì però a mantenersi in piedi, mentre lo sguardo gli cadeva, quasi istintivamente, sul pelo dell'acqua. Malgrado la luce spettrale dell'alba avesse rischiarato lo spazio attorno a lui, non capì immediatamente di cosa si trattasse.

All'inizio, quello che scorse fu uno strano groviglio di alghe nere. Ma poi, aguzzando lo sguardo, si avvide che non si trattava affatto di quello che aveva creduto. Di fronte a lui, nell'acqua, affiorava una gran massa di capelli. E, quando il corpo ruotò su sé stesso, sotto di essi scorse un volto: pallido, bianco, come se qualcuno l'avesse completamente svuotato del sangue. Un viso spento che, tempo prima, doveva essere stato bellissimo. Ma ora gli fece venire i brividi perché recava in sé il soffio della morte. Sante rimase con la bocca aperta e un urlo muto chiuso in gola. Poi, facendo appello alla propria forza d'animo, allungò le braccia, in cerca del corpo. Le sue dita toccarono il collo e poi si strinsero attorno alle spalle.

Quando tirò a sé il cadavere, nel disperato tentativo di issarlo sulla barca, vide qualcosa che lo lasciò sgomento. Perché non solo quella donna era morta. Ma qualcuno, con rabbia feroce, doveva averle squarciato il petto e strappato il cuore.

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