Quando Diogene Cinico morì, gli ateniesi grati gli eressero un monumento per aver insegnato loro «che la vita basta a se stessa». La vita, però, a se stessa non basta mai, come dimostra l'ubiquità di alcuni «azzardi universali», chiamiamoli così, come l'arte, la religione, il diritto, la letteratura e in generale la cultura; tutti presenti in forma ossessiva nelle opere di Franz Kafka. Roberto Calasso, scomparso due anni fa, al grande praghese ha indirizzato nel 2002 la monografia K.. Adesso la sua creatura, l'Adelphi, manda nelle librerie un suo saggio dedicato a tre racconti lunghi di animali - Ricerche di un cane, Josephine, la cantante o Il popolo dei topi e La tana - che hanno sempre sconcertato i lettori perché mettono in discussione le certezze nelle quali siamo immersi, nonché il rapporto, evocato fin dal titolo, L'animale della foresta, fra civiltà e natura.
Nel primo racconto, la dialettica fra nuda vita e arte è innervata al motivo, che ritorna in molti autori del primo Novecento, per esempio in Rilke, della genealogia dell'autore: come accade che un bambino diventi uno scrittore? Quale trauma è all'origine dell'eccezionalità di un simile destino? Nelle Ricerche di un cane, Calasso scorge addirittura «la massima approssimazione a un profilo di autobiografia»: un cane come gli altri, un cane fra i cani, nota una «piccola falla», un leggero malessere che lo costringe alla condizione di apolide, cioè a trasformarsi in «un cane che indaga sui cani e non appartiene più alla loro comunità». Nel secondo racconto, lo scrittore che ormai è un fuoriuscito ha le sembianze di Josephine, la cantante impegnata a rivelare l'esistenza del canto al popolo dei topi, composto di scaltri e pratici filistei che si servono della lingua (del fischio, scrive Kafka) solo per comunicare. Ovviamente i topi negano d'istinto la realtà di un tale miracolo: il canto è inutile, è solo «una mascheratura del fischio» oppure l'inganno di qualcuno che non ha voglia di lavorare (vale la pena di ricordare che la filosofia dell'arte, che ha meno di tre secoli, ha costantemente rischiato di mancare il suo oggetto e persino di dissolverlo, finendo per vedere, nell'artista, un impostore). È con La tana, tuttavia, un racconto che molti considerano il più emblematico e misterioso, che Calasso spinge in profondità l'analisi, rintracciando in Kafka un'intera e articolata teoria della cultura. Una bestia imprecisata, forse una talpa o un tasso, scava fino ad aprirsi uno spazio ipogeo nel quale presumibilmente si nasconde.
La tana, però, al pari delle fortezze di cui scriverà Sebald, in quanto rifugio si rivela inaffidabile ed è invasa da infiniti «animali dispersi e brulicanti»; in compenso, diventa ben presto un deposito che adombra un quadro della cultura come catafascio e cascame, un ambiente che forse non ha lo scopo di proteggere da nemici reali o allucinatori, ma di separare il dentro dal fuori, permettendo al mondo esterno di dispiegarsi. Che dire, poi, dello «strato di muschio rimovibile» che nasconderebbe l'ingresso della tana ai fantomatici predatori? Per Calasso è un altro passo in cui Kafka racconta in forma trasposta il suo autoestraniarsi, l'incapacità di vivere su cui si sofferma una lettera, riportata per intero, di Milena, la donna alla quale furono indirizzate alcune delle riflessioni più belle della letteratura mondiale.
Cosa si celi dietro quell'incapacità è uno dei meriti di questo libretto ipnotico, privo di superfetazioni, impegnato a portare alla luce il senso di pagine così spiazzanti e abissali da essere irriducibili alla semplice narrazione.
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