Adriano Leite Ribeiro ha quarantadue anni e vive a Rio de Janeiro dove era nato il 17 di febbraio dell’anno mondiale per l’Italia di Bearzot. Adriano è un uomo perduto, si aggira scalzo e ubriaco nelle strade delle favelas, l’alcool lo ha sfinito, la gloria del calcio, do fucibol, è lontanissima, nebbiosa e annebbiata. Narrano che calciasse così forte che il pallone viaggiasse a 140 chilometri all’ora e nessun portiere potesse salvarsi e infine giacere, poi raccogliendo la palla in fondo alla rete.
Belli gli anni a Milano, altri narratori, Bonolis Paolo fra questi, garantivano di averlo individuato futuro campione, mentre strabiliava la gente carioca sulla sabbia di Copacabana, il tam tam euforico convinse Massimo Moratti ad assumerlo all’Inter dove mostrò e dimostrò virtù acrobatiche feroci, gol, potenza, prepotenza.
Nel breve giro di tre anni ottenne il massimo, in Italia e con la nazionale verdeoro, la gloria veloce come i palloni da lui calciati, lo fece sbandare, la dolce vita lo sfessò, finì fotografato in una notte balorda tra donne e altro, prese a girare per squadre e città, il ritorno in Brasile sembrava poter essere la culla giusta e invece la vita agra dei quartieri poveri e disperati di Rio lo ha risucchiato, trascinandolo nella polvere della disperazione, della miseria esistenziale.Le immagini che circolano sui social non abbisognano di didascalia, sono l’epilogo di un ragazzo mai diventato uomo e di un uomo che ha bruciato il tempo di essere ragazzo.
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