Calciatore atipico, sinistro devastante e grinta da vendere: Sinisa Mihajlovic è stato, nelle sue peculiarità un giocatore unico, impossibile da paragonare a qualsiasi altro.
Micidiale sui calci piazzati, in Serie A, Mihajlovic ha realizzato 28 reti su punizione, di cui 3 in una sola partita. Tra i segreti della sua abilità nei calci di punizione, lui stesso annoverò la rincorsa breve che sorprendeva i portieri, la tendenza a usare diverse tecniche di tiro nonché l'insolita routine di esercizio, che comprendeva l'impiego di barriere artificiali poste a una distanza inferiore a quella prevista in partita.
La prima perla della carriera è il successo in Coppa Campioni con l'amata Stella Rossa di Belgrado nel 1991: un anno prima del crollo della Jugoslavia. Erano i brasiliani d’Europa. Geniali ma incostanti. Grandissimi talenti, da Savicevic a Boban, da Stojkovic a Boksic e Prosinecki. Nella finale Sinisa segnò il quarto rigore della sequenza che al San Nicola di Bari consegnò la Coppa ai serbi. Questo successo gli vale l'approdo alla Roma. Nella capitale non va molto bene, gioca da esterno sinistro senza convincere.
Due anni dopo, arriva la svolta della carriera: passa alla Sampdoria, dove diventa il pupillo di Sven Goran Eriksson che lo valorizza schierandolo al centro della difesa. In quella posizione da classico battitore libero trova la posizione ideale. Nel 1998 il tecnico svedese lo vuole con sé alla Lazio. In biancoceleste diventa l'idolo della tifoseria che ripaga con un totale di 20 gol, suo record con la stessa maglia. Nella stagione in cui vinse lo scudetto con la Lazio realizzò 13 reti. Qualche anno dopo Pep Guardiola gli confessò:"Purtroppo abbiamo giocato nello stesso periodo, altrimenti da tecnico, ti avrei preso subito. Saresti stato perfetto per il mio gioco".
Quelli laziali sono gli anni dell'ultimo conflitto balcanico e quando la Nato bombarda Belgrado, con gli aerei che partono dalle basi in Italia, Mihajlovic non nasconde l'orgoglio di essere serbo. Come non rinnega l'amicizia per Zeliko Raznjatovic, ex capo ultrà della Stella Rossa, meglio noto come il comandante Arkan. Con il connazionale Dejan Stankovic, nel maggio del 1999, a Udine gioca con il lutto al braccio e, dopo aver trasformato un rigore, mostra la maglietta bianca con il bersaglio e la scritta "target", simbolo di quanti da oltre un mese protestano per gli ordigni contro la Serbia.
Negli ultimi tempi ha avuto il modo di finire di leggere Open, l'autobiografia di André Agassi. L'americano odiava il tennis con tutte le sue forze, Sinisa invece amava il calcio da morire. Era un uomo d'amore, per usare una categoria cara a Luciano De Crescenzo, e d'onore. Era uno di quelli che rispetta la parola data, le promesse, i valori con cui è cresciuto. Una rarità al mondo oggi. Non faceva sconti ai ragazzi che con mezza partita si sentono già arrivati."Tanta forma, poca sostanza. Più che calciatori li definisco ‘calciattori’. Sono quelli che dopo uno scatto, se perdono il pallone, invece di rientrare, si aggiustano i capelli".
Un uomo in battaglia, Sinisa. Gli hanno contestato il carattere. Ma chi ha carattere, ha un brutto carattere, come diceva Pertini. "Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali" amava ripetere. Lo hanno definito rambesco e gli hanno dato del fascista: "L'accusa più stupida. Io che sono nato sotto Tito! Nazionalista semmai, ma non fascista.
Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa e non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia". Più di ogni altra cosa è stato questo: un duro dal grande cuore, nel campo e nella vita. Proprio per questo mancherà tanto al calcio italiano.
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