Arrivò all'Inter che sembrava un pulcino: ventidue anni, la faccia da ragazzino impaurito, sbarcò a Milano con un altro argentino, Sebastian Rambert. Quest'ultimo si era messo in luce con l’Independiente ed era stimato da due vecchie glorie del calcio italiano, Angelillo e Sivori. Di Zanetti, invece, non si diceva molto. Massimo Moratti lo volle in nerazzurro dopo aver visionato una videocassetta con una partita della nazionale olimpica argentina. Gli piacque subito e lo prese, pagandolo 5 miliardi di lire, uno degli acquisti più azzeccati di sempre. Se Rambert, costato 4,2 miliardi, giocò appena due gare (una in Coppa Uefa, nell'esordio con il Lugano) e un'altra in Coppa Italia, e poi a gennaio fu ceduto, Zanetti invece entrò nella storia dell'Inter: 858 presenze in campo, impreziosite dalla vittoria di ben sedici trofei (il calciatore dell'Inter più vincente di sempre), tra cui lo storico Triplete del 2010.
"Pupi", come è sempre stato chiamato Zanetti, era un predestinato. Quando arrivò all'Inter un certo Maradona parlò di "migliore acquisto dell’anno". Diego conosceva le doti di quel ragazzo, ne aveva intravisto le qualità, ma neanche lui avrebbe potuto immaginare che Zanetti si sarebbe legato all’Inter ventotto anni.
Nato a Buenos Aires il 10 agosto 1973, Zanetti da alcuni anni è vice presidente nerazzurro. Una carica conquistata sul campo, dopo diciannove stagioni da calciatore, di cui tredici con la fascia da capitano al braccio. Dicevamo che ha vinto più di tutti nella storia dell'Inter: cinque campionati italiani, quattro Coppe Italia, quattro Supercoppe italiane, una Coppa Uefa, la Champions League del 2009/10 (seguita dal Mondiale per club). Zanetti ha chiuso la sua carriera come calciatore straniero con più presenze in Serie A (615), al quarto posto in assoluto, alle spalle solo di Buffon, Maldini e Totti, altre bandiere per eccellenza del calcio italiano.
Quelli che non hanno avuto modo, per ragioni anagrafiche, di vederlo in campo, si chiederanno che tipo di giocatore fosse. Dotato di grande fisico e polmoni super, avrà percorso la fascia destra del campo decine di migliaia di volte, con il pallone ben incollato al piede, facilità nel dribblare gli avversari e l'abilità di crossare in mezzo all'area da fondo campo. Un'altra bandiera dell'Inter, Beppe Bergomi, lo vide in allenamento e ne rimase impressionato: "Facciamo possesso palla: Pupi non la perde mai, non gliela toglievi, incollata. Quel giorno dissi: 'Questo farà la storia dell’Inter'". E così è stato. Bergomi ci aveva preso.
Il 10 maggio 2014 l'intero stadio Meazza di Milano gli tributò un applauso commosso per la sua ultima partita (Inter-Lazio). Molti, giovani e meno giovani, si misero a piangere. Uno dei più amati giocatori nerazzurri di sempre, una bandiera induscussa, appendeva gli scarpini al chiodo. Ma per sempre sarebbe rimasto nel cuore degli interisti di tutto il mondo.
Come dirigente ha sempre avuto uno stile molto british: mai una polemica, mai uno scivolone, sempre in prima fila a difendere i propri giocatori e a dispensare consigli a tutti. Ieri, in un'intervista alla Gazzetta dello Sport, si è soffermato sulla fine del rapporto tra l'Inter e Romelu Lukaku. Ha usato parole dure, ma sempre con stile. "Per ciò che l’Inter ha fatto per lui ci aspettavamo un altro tipo di comportamento. Come professionista e uomo.
Lui ha diritto di andare dove vuole, ci mancherebbe, bastava solo dirlo per tempo. Nessuno, però, è più grande del club e nel costruire una squadra devi sempre considerare chi metti in spogliatoio". Anche da questi particolari si giudica un giocatore (e un dirigente di calcio).
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