Il mantello dell’Islam sul mondiale di Messi

Molti hanno storto la bocca quando l'emiro del Qatar ha fatto vestire una tunica nera a Messi prima di consegnargli la Coppa del Mondo. Dietro a questo gesto c'è molto di più: dall'orgoglio arabo ad una cinica operazione di politica internazionale

Il mantello dell’Islam sul mondiale di Messi

Dopo un Mondiale marchiato a fuoco da un’infinità di polemiche, speravamo onestamente che una delle migliori finali della storia del calcio riuscisse a mettere tutti d’accordo. Invece, nemmeno il finale hollywoodiano che molti sognavano, il campione che non aveva mai vinto niente con la camiseta albiceleste che, nel giro di un anno alza al cielo la Copa America e la Coppa del Mondo, è riuscito nell’impresa. A riattizzare le polemiche un gesto che ha reso ancora più singolare la lunghissima cerimonia di premiazione, l’emiro del Qatar che fa indossare al capitano dell’Argentina una tunica nera prima di consegnargli la coppa più bella. Nel giro di pochi secondi i social media si sono scatenati in una serie di insulti più o meno urbani. Da chi lo definisce un “cencio”, a chi se la prende con la Fifa sempre genuflessa al Dio Denaro, a chi vede in questo gesto ogni genere di secondo o terzo significato nascosto, questa aggiunta al cerimoniale è andato di traverso a molti. Proviamo ad affrontare l’ultima polemica di Qatar 2022 e capire cosa voglia davvero dire.

La "bisht", la tunica del rispetto

Chi ha frequentato il mondo arabo saprà che la sovratunica consegnata a Messi è un capo d’abbigliamento non molto comune che fa parte dell’abbigliamento tradizionale. La "bisht" è una specie di soprabito cerimoniale, usato solo in alcune occasioni speciali e da persone importanti sopra il vestito tipico, quella che in Egitto è conosciuta come "Jilabīyah" e nei paesi del Golfo Persico come "Thawb", parola generica che in arabo significa più o meno "vestito". La bisht la portano di solito i membri della famiglia reale e i religiosi di alto lignaggio, ma può essere anche vestita da persone normali in occasioni molto particolari come l’Eid al-Fitr, il giorno della fine del digiuno del Ramadan o occasioni davvero speciali come funerali o il giorno del tuo matrimonio.

Gli appassionati di storia del Medio Oriente ricorderanno forse come nelle sue foto d’epoca, spesso lo stesso Lawrence d’Arabia portasse una bisht sopra la sua jilabiyah. Questa tunica leggera non è affatto dozzinale; viene tessuta con pelo di cammello e lana purissima solo in alcuni paesi del Vicino Oriente ed esportata in tutto il mondo arabo. Si è detto in queste ore che far indossare la bisht sarebbe un gesto riservato agli ospiti particolarmente importanti, un omaggio per riconoscerne lo status, una specie di incoronazione senza corona. Sarà, ma nonostante chi scrive abbia passato tanto tempo dall’altra parte del Mediterraneo, non mi è mai capitato di vedere niente del genere. Possibile che sia una tradizione dei paesi del Golfo, che conosco decisamente meno, ma il sospetto è che dietro questo gesto ci sia ben altro.

Un gesto molto politico

Se le reazioni dei tifosi e commentatori occidentali sono state tutte molto critiche, la reazione del mondo arabo è stata praticamente opposta. Vedere il calciatore più forte, l’idolo che ha appena realizzato il suo sogno, vestire un indumento chiarissimamente legato alla loro cultura, li ha riempiti d’orgoglio, segno che, almeno da quelle parti, soffiare sulle ceneri mai sopite del nazionalismo è sempre un buon affare. Altrettanto prevedibile la reazione di molti che vedono le critiche occidentali come l’ennesimo segnale di islamofobia, il cui fantasma sembra abitare solo nelle teste di chi non aspetta altro che un’occasione per attaccare l’Occidente.

Comunque la pensiate il fatto rimane: nelle foto che da qui all’eternità descriveranno non solo il primo Mondiale nel mondo arabo ma l’epopea della Pulce, il momento del suo trionfo personale, la camiseta albiceleste si vede a malapena, coperta da un indumento che con il calcio non ha niente a che vedere. Immagino che l’Adidas, che paga non pochi soldi per fornire la divisa all’Argentina, non ci sia rimasta particolarmente bene ma la questione è un’altra. Perché mai un paese dovrebbe voler sovrapporre un suo simbolo alla Coppa del Mondo, icona italiana del pianeta che si unisce dietro ad un pallone che rotola su un campo verde? Che differenza c’è con il momento iconico nel quale Pelè, il re del calcio, al settimo cielo dopo aver alzato al cielo la sua terza Coppa Rimet, sotto il cielo vicino dello Stadio Azteca, indossò un sombrero? Che quello era un gesto giocoso, figlio dell’euforia e non una estremamente calcolata mossa politica.

Un segnale di debolezza?

Il Qatar, al contrario del Messico, ha parecchio da farsi perdonare ed ha speso una fortuna per far dimenticare a tutti le sue parecchie magagne. Più che un segnale di forza, lo vedrei come l’ennesimo passo falso di un paese ricco di gas e dollari ma di non molto altro. Gli Stati Uniti non avranno bisogno di far indossare uno Stetson a chi vincerà il mondiale tra quattro anni, non gli verrebbe mai in mente. Gesti del genere sono eminentemente politici, fatti per guadagnare punti nel mondo arabo, nella sorda guerra fredda che ha visto l’emirato del Golfo oggetto di un embargo da parte dei vicini per l’ingerenza nei loro affari interni tramite il discusso canale satellitare governativo, Al Jazeera.

Al tempo giudicare se questo gesto sarà stato un successo o un involontario autogol di un paese troppo ansioso di capitalizzare al meglio le luci del palcoscenico più importante al mondo, con miliardi di persone attaccate al televisore per vedere Messi che abbraccia la sua coppa. Piaccia o non piaccia la politica è stata una grossa parte di questo strano mondiale invernale. Il fatto che molti in Occidente abbiano storto la bocca importa poco alla famiglia reale qatariota: il gesto non era rivolto a loro.

Tutti nel mondo arabo l’hanno capito ed apprezzato, tranne chi è al potere negli altrettanto discutibili paesi vicini, certo

non paragoni di democrazia. Nel mondiale delle infinite polemiche anche l’atto più semplice di tutti, consegnare una coppa, si è trasformato in un caso politico, un’operazione di marketing e soft power. Così è, se vi pare.

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