Da Carolina Invernizio a Sibilla Aleramo: ecco tante «lei», vittime del solito «lui»

Ci sono tante signore che ne raccontano altre. Certi aneddoti un po’ frenati da parole prudenti, altri pieni di impeto e prosa sfacciata. Perché a volte la timidezza drena dai nervi risorse nascoste, e altre volte, invece, a dare coraggio è solo il coraggio. Erano tra le prime donne che provavano a esserlo su carta e parlavano di quelle che, tra le prime, avevano provato a esserlo nella vita. Perciò tanta intermittenza, e pudore e slancio.
Alcune smerigliate dal male di vivere, altre incantate dalla prospettiva di poter essere felici. Sempre tra le prime, ad essere altro rispetto agli uomini. Ma senza gabbie e mimose e appartenenza. Con l’unica consapevolezza del fatto che è meno grave perdere che perdersi.
Erano le pioniere che ingaggiavano un braccio di ferro senza muscoli con chi pretendeva di tenerle all’ombra, schiacciate e zitte. Ci sono loro, a caratteri corsivi, nelle pagine rigonfie di due antologie eleganti (Donna in breve. Storie e destini femminili in 150 anni di racconti italiani d’autrice, Castelvecchi, pagg. 659, euro 35, a cura di Riccardo Reim, e Quello che le donne. Storie di coraggio e passione, Einaudi, pagg. 266, euro 16).
Loro nei gonnelloni scomodi e croccanti dell’800 a forzare gli argini di un mondo stretto. Tutte signore di quell’epoca con più cose che spazio per dirle, con più volume nella voce che gente disposta ad ascoltarle. Dalla Contessa Lara alla Marchesa Colombi, da Annie Vivanti a Sibilla Aleramo, passando per Amalia Guglielminetti e Carolina Invernizio. Piccoli capitoli dal fiato lungo, che per titolo hanno per di più nomi di donna. Con storie piccole che allora (e anche oggi, a dire il vero) erano cose grandissime: amori graffiati, incompiuti, sporcati. O resoconti di puro coraggio, di fughe impensabili, di reazionarie disobbedienze e di passioni infrequentabili. E in mezzo alle signore dell’Ottocento, che provano e tentano e si affacciano e si ritraggono, spunta lei: Franca Valeri. La signora che è riuscita a diventare addirittura signorina. E che a pagina 227 della seconda antologia (Quello che le donne...) riassume e vendica tutte: quelle che hanno lavorato per lei un secolo prima e quelle che rimarranno dopo di lei secoli dopo. Diventa, per poche pagine, la moglie tradita che con diabolico candore e sublime perfidia scrive all’amante del marito. L’ammansisce all’inizio con inarrivabile stile e la insulta alla fine con la stessa ricetta.
È geniale incastonare Franca in mezzo a tante donne che hanno lottato per diventarlo, perché lei è la perfetta sintesi di tutte, l’opposto di quelle che oggi, senza ragione, pretendono di esserlo: quelle dalle forme generose e dai principî morali piatti. Quelle che oggi pretendono (e in realtà pietiscono) maleodoranti mimose l’otto marzo solo per ricordarsi e ricordare agli altri di averne diritto. Di essere signore che come tali vanno omaggiate.
Invece qui ci sono pagine e pagine di donne che non hanno bisogno di fiori che stingono. Mazzi di femmine che soffrono di carenza esterna e di eccedenza interna, che restano come tutte quelle che vincono. L’amore che educa e Quelle noiose bambine! E poi Cristina, e Le avventure di Belinda, e La vedova de Carliis e La donna di casa...

Palpebre che non piangono e non dormono, che hanno orrore di quelli che non sanno amare, o chiedere e quindi meritare e che hanno alzato la voce con la penna. Soffiato su carta quello che avevano capito di essere. Per provare ad amare e a chiedere e quindi a meritare.

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