Aveva ragione il procuratore generale Cuno Tarfusser quando - con mossa inconsueta per un rappresentante della pubblica accusa - aveva chiesto l'assoluzione dell'imputato. Ed ebbero torto i giudici della Corte d'assise d'appello che invece lo condannarono a quindici anni di carcere per omicidio volontario. Una condanna emessa, secondo la stessa Procura, in assenza di qualunque prova. Il morto era morto, ma si trattava di un semplice incidente stradale.
Ieri la Cassazione ha riaperto il caso, annullando la condanna e ordinando un nuovo processo. Rientra così nelle nebbie dell'incertezza la morte avvenuta il pomeriggio dell'11 luglio 2019 di Bruno Lazzarotti, affogato in mezzo metro d'acqua in una roggia vicino alla Certosa di Pavia. Insieme a lui, quel giorno, c'era il suo migliore amico, Nicola Alfano, legato a lui - secondo quanto scritto nelle carte - da un «forte, simil-filiale, vincolo affettivo».
Su cosa sia accaduto esattamente quel giorno acchiappare la verità sembra sia divenuto impossibile. Alfano ha sempre detto di avere perso il controllo dell'auto per l'ingresso di un calabrone e di essere finito nel fosso; qui l'auto si ribaltò, Lazzarotti finì in acqua e quando l'amico riuscì a tirarlo in secco era troppo tardi. Tutte bugie, secondo la procura di Pavia: Alfano affogò l'amico e poi inscenò l'incidente.
Movente? Anche qui la verità è apparsa evanescente. Prima si è parlato di movente sentimentale in una relazione gay, poi - scartata per forza di cose questa ipotesi - si è passato a un vago movente economico. Lazzarotti aveva nominato l'amico erede universale, ma poi si era invaghito di una ragazza. E Alfano, per paura di perdere l'eredità, lo avrebbe preventivamente ammazzato.
Nel gennaio dell'anno scorso Alfano era stato condannato a quindici anni per omicidio volontario. In luglio, al processo d'appello, la svolta: il procuratore generale Tarfusser, invece di chiedere burocraticamente la conferma della condanna, esplora il fascicolo, approfondisce l'inchiesta, va persino a vedere di persona la roggia. E alla fine smentisce i colleghi che l'hanno preceduto: Alfano dice la verità, fu un incidente, condannatelo a un anno per omicidio colposo.
La Corte d'assise conferma invece la condanna. Tarfusser non si dà per vinto, convinto che dovere della Procura sia far condannare i colpevoli quanto far assolvere gli innocenti.
Ricorre lui stesso in Cassazione: Alfano, scrive, è stato condannato «sulla base di elementi indiziari né gravi, né precisi, né concordanti. E nonostante l'esistenza di una ipotesi alternativa mai investigata». La Cassazione gli dà ragione. Alfano, che era a un passo dal carcere, torna a sperare.
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