CATHER Quell’odio che nasconde l’amore

Torna «Il mio mortale nemico»: un capolavoro di ambiguità e di doppiezza in cui l’autrice americana indaga il fondo oscuro e distruttivo di un rapporto di coppia apparentemente felice

«Il mio mortale nemico» era l'amante per cui avrei dato la vita. Può confessarselo solo nel finale però, nel momento in cui, sola con il suo nemico, è finalmente raggiunta dal suo destino fatale e mortale, la protagonista del libro di Willa Cather (1876-1947): un piccolo straordinario capolavoro di ambiguità e di doppiezza che l'autrice americana scrisse e pubblicò nel 1926, un anno dopo La casa del professore e un anno prima di La morte viene per l'arcivescovo, i suoi due romanzi più celebrati.
Myra Henshawe - questo il nome di un personaggio inventato per essere indimenticabile: tolto all'immaginazione e consegnato al ricordo fin dalla sua prima apparizione - Myra Henshawe lo ammette con un filo di voce solo alla fine. Allertato già dal titolo tuttavia, il lettore di My Mortal Enemy (tradotto da Monica Pareschi per Adelphi, 112 pp. 9 euro), cercava fin dal principio nella trama di questa favolosa storia d'amore - racconto d'incantesimi e incantevole romance - il filo rotto che avrebbe aperto una smagliatura per disfarla.
Difficile però trovare un cedimento, un punto liso tra le maglie di una rete gettata da lunga pezza a catturare i ricordi della giovanissima narratrice - quindicenne nelle prime pagine, invecchiata in rapido volger di capitoli dei dieci anni che non bastano a lasciare nel suo sguardo e nel tono del suo racconto il segno del disincanto -, e tesa a imbrigliare le fantasie dei suoi familiari.
«La prima volta che incontrai Myra Henshawe avevo quindici anni, ma era da quando avevo memoria che ne sentivo parlare», dice Nellie nell'incipit, avviandosi a ritessere un'altra volta da capo la tela di una narrazione infinita. D'altro infatti non si parlava in casa sua: «Lei e la sua fuga per sposarsi erano uno degli argomenti più interessanti, anzi l'unico interessante nella nostra famiglia, in vacanza o a cena».
Entra così in scena preceduta da un tappeto intrecciato di ricordi e ricamato di fantasticherie «la vera Myra». Senza perciò in nulla sfatare con la sua minuta presenza di «donna piccola e rotonda» la propria fama di realizzatrice di sogni. Né affatto disperdere con la sua risata nervosa, rabbiosa, caustica ed esultante, l'aura di appeal irresistibile che da sempre l'avvolge.
Dal vivo e di persona Myra è anzi perfino più magica e sfuggente della propria giovanile controfigura: della vaga eroina di quella notte «in cui Amore aveva varcato il cancello e sfidato il Destino». E, descritta dalla Cather in prosa di romanzo, è anche più imprendibile e charmante dell'audace innamorata che, disdegnando regno, ricchezza, famiglia e eredità, ruppe gli indugi, spezzò i sortilegi, uscì «dai vecchi libri di fiabe» e abbandonò «il castello della Bella Addormentata».
«Ostentatamente impettita», «sbadatamente gentile», c'era forse da credere più alla sua dissimulata gentilezza che alla sua alterigia: vista l'attenzione, la giocosa curiosità che sapeva dedicare ai suoi interlocutori. Fiera, altera, superbamente regale nel contegno, c'era forse da sospettare che tenesse la fronte tanto alta meno per la spavalda consapevolezza di sé che dell'incipiente doppio mento di cui si crucciava.
Sospetto - e cruccio - che comunque non valevano a intaccare il mirabile profilo di Myra più di quanto l'ombra del marito accanto a lei valesse a oscurare la sua luce. Restava un'ombra al suo cospetto Oswald Henshawe. Sempre all'ombra di lei: pronto a seguirla e in ogni modo assecondarla dai tempi immemorabili della loro fuga d'amore. Sempre indefinibile, come una silhouette illuminata da raggi riflessi: insufficienti a rischiarare la sconcertante mescolanza dei suoi tratti pronunciati, militareschi - «fronte ampia e sporgente, zigomi alti, naso importante»: segni di «un'audacia assopita che avrebbe potuto affermarsi brillantemente» - con la dolcezza dello sguardo, la mestizia degli occhi, la morbidezza dei baffi spioventi all'inglese.
È la sagoma perfetta, ideale (irreale?) di un eroe: principe azzurro, cavaliere fantastico, sposo promesso che patisce l'afflizione di fare la sua comparsa avendo alle spalle - a irraggiarlo da dietro, in controluce - desideri ormai esauditi, un bel sogno coronato, il favoloso lieto fine già svelato: «Ma poi sono stati felici?», si chiedeva la sua piccola cantastorie. «Felici? Ma sì! Come lo sono in tanti", era la risposta scoraggiante. E poiché la sua fiaba, annunciata sotto gli auspici di fortuna e di buona sorte da sontuoso srotolarsi di tappeti, avrebbe avuto poi ancora una coda romanzesca nello strascico di una prosastica narrazione, al consorte fortunato non restava che proseguire sulla scia degli eventi. E recitare oltre l'happy end la sua parte di prosaico eponimo da romanzo. Non è un ruolo splendente.

Forse non è nemmeno la sua parte: forse non è sua l'ombra sinistra del nemico che merita gli onori del titolo.
Maligno e mortale più di colui che tolse la mirabile Myra alla sua fiaba è forse il morbo oscuro che, estraneo a finali felici e contenti, la rapisce una volta e per sempre ai suoi giorni.

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