La cattiva lingua non fa il buon romanzo

L’invasione del turpiloquio accende la nostalgia per i classici

Il turpiloquio in letteratura, a meno che non si sia Bukowski o Genet, è un segno non tanto d’immoralità (ovviamente l’«immoralità» in letteratura non esiste), bensì di cattivo gusto, o magari di volontà di apparire disinibiti e soprattutto «giovanili». La cosa triste è che gli editori, invece di aiutare gli scrittori a correggersi, li assecondano pensando che la trivialità aiuti a vendere. Faccio alcuni esempi senza citare nomi né di autori, né di editori (ma sono pronto a fornirli in caso di contestazione): il romanzo di una signora comincia così: «Chiaro che, se potessi tornare indietro di quarant’anni, me la scoperei» (2001); un’altra signora: «Mi viene alle spalle... e di colpo me lo infila in gola fino alla radice..., lo succhio, fino a sentirlo svuotarlo completamente nella mia bocca» (1997); un’altra ancora: «Sento che strusci la fica contro la mia pancia e mi farai morire» (1998); ed ora un signore: «Prima di entrare nel bunker (la scuola, ndr) questa mattina ho incrociato Lola, la collega che mi sono fatto la primavera scorsa» (2001); un altro signore: «Quando se n’è andata, rimango seduto sul divano con il mio nobile cazzo nella mano destra, tiro indietro la pelle del prepuzio», ecc. (2003); una giovane donna (1998) semina un po’ dovunque il verbo «scopare» e anche qualche «minchia», aggiungendo l’errore di ortografia «spiaccicare parola» (per «spiccicare parola», ndr). E si potrebbe continuare a lungo.
Ora ho qui sottomano i romanzi di due autori importanti usciti di recente: il primo di essi ha qua e là (peccato perché è un ottimo libro) esempi di turpiloquio giovanilistico, poi un paio di pagine di minuziosa e superflua descrizione di quel gioco d’amore che i latini definivano fellatio; l’altro è addirittura tessuto di questo linguaggio, ma poiché il livello letterario del libro è alto, pur se non ne è condivisibile il disperato e insieme cinico nichilismo, l’unico consiglio che darei a questo autore (ma anche al precedente) è di «stringere» le quattrocento pagine del suo volume, dedicandone magari duecento alle due bellissime storie d’amore in esse contenibili, ricordando il parere remoto, ma sempre valido, di Callimaco, uno dei padri dell’ellenismo alessandrino: «Grosso libro, grosso malanno».
L’obiezione fondamentale a tutto ciò in fondo non è neanche relativa ad un presunto anche se evidente malgusto, bensì alla mancanza di fantasia che induce molti scrittori a servirsi della scorciatoia del turpiloquio: infatti per secoli una materia anche fortemente erotica è stata esposta con magistrali e godibili trovate e metafore stilistiche non già per evitare appunto il turpiloquio, bensì perché a ispirarle era un forte impulso creativo. Qualche esempio: Petronio nel Satyricon, per indicare la sodomizzazione di una fanciulla da parte del retore Eumolpo, dice che la invitò ad pygesiaca sacra («ai sacri riti culabriensi», ndr). E in tutto il resto del romanzo, pur pervaso da erotismo, c’è soltanto una parola del turpiloquio latino volgare, spintria («omosessuale passivo», ndr); Boccaccio definisce così il membro virile: «Umido radicale più adatto a piantare uomini»; Pietro Aretino indica un certo tipo di penetrazione sessuale con questa espressione «intinse il pennello nello scodellino del colore»; Gioacchino Belli rappresenta così il momento dell’orgasmo del biblico Oloferne prima che questi sia decapitato da Giuditta: «Tra il vino e lo schiumà della marmitta» e, ancora più immaginosamente, l’attitudine polimorfica della prostituta Santaccia di piazza Montanara, con questi due versi: «E co’ l’arme e cor santo e co’ le braccia/ t’ingabbiava l’uscelli a quarte a quarte».
Perché non sostituire al corrivo linguaggio dei ragazzotti, naturalmente secondo il tono adatto alla narrazione - scherzosa o drammatica che sia - un impegno creativo simile a questo appena esemplificato? E non si obietti che anche la letteratura latina ha casi di linguaggio osceno. In realtà questo avviene soltanto in due casi precisi e motivati: in Catullo e Marziale, ma in Catullo ciò ha addirittura un senso di rivoluzione linguistica contro la seriosa tradizione dell’arcaismo, mentre in Marziale, che notoriamente scriveva epigrammi su commissione, molti di essi, senz’altro osceni, gli erano stati probabilmente richiesti dal committente.

V’erano poi i Carmina priapea, una singola raccolta a più mani di versi dedicati al dio del sesso e della fecondità, Priapo, che era anche considerato il guardiano, armato di randello, dei poderi e delle proprietà agricole.

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