La «cattiva sorte» delle donne di Mani pulite

Accanto a volti noti, tra le pagine anche figure meno conosciute: Dorina Polverari finì in «esilio» in Tunisia col marito. Maria Teresa Ciancio, per assistere il coniuge, trascurò di curarsi e morì

Stefano Zurlo

da Milano

La storia di Tangentopoli, come la guerra di Troia, comincia per una donna: Laura Sala, ex moglie di Mario Chiesa. È lei a portare in tribunale i conti del marito e a scoperchiare per prima le fortune accumulate dal presidente del Pio Albergo Trivulzio. Il grande incendio può cominciare. Tredici anni dopo scopriamo però che tante altre donne sono rimaste abbracciate ai loro uomini nel momento della sventura. Non li hanno abbandonati, non li hanno traditi, non sono scappate mentre il mondo in cui erano si dissolveva come un miraggio. È stata Stefania Craxi a raccogliere le confessioni di alcune signore e figlie di uomini finiti nel tritacarne delle Procure: è nato così «Nella buona e nelle cattiva sorte» (edito da Koinè), questa settimana in libreria.
Chi sono le donne che si raccontano nel libro?
«Anzitutto, persone umili. Donne che badavano a mandare avanti la vita familiare. Con l’handicap di avere mariti o uomini assorbiti dalla politica e quindi spesso assenti».
Nell’immaginario collettivo le donne di Tangentopoli sono signore ingioiellate, capricciose, vanitose.
«Ma quando mai. Sono donne con il tailleur della domenica. Come la signora Contrada. Il suo problema la sera del 23 dicembre 1992 era preparare il cenone di Natale. Invece, la mattina del 24 la polizia piomba in casa, il marito, Bruno Contrada, uno dei più alti funzionari del Sismi, viene arrestato con accuse infamanti. Lei non uscirà mai dalla penombra ma non mollerà di una virgola la difesa di Bruno. E scriverà una lettera ai pentiti che l’hanno messo in croce, invitandoli come “fosse la loro madre a dire la verità”».
Come vive la famiglia Contrada questa prova senza fine?
«La signora Adriana mi ha mostrato le lettere dal carcere. Sono terribili: “Adriana, io non voglio che tu venga qui a trovarmi. Anche se questo stato dovesse durare anni. Dovremo rivederci a casa nostra”. E ancora, dopo anni e anni di processi e verdetti altalenanti: “Cara Adriana, l’unico profondo rammarico anzi dolore lancinante che mi rimane è che non possa lasciare ai miei figli un nome onorato, oltre ai miei libri, alla mia povera casa e quelle quattro pietre realizzate dopo 70 anni (35 miei e 35 tuoi) principalmente per merito tuo, per la tua parsimonia e previdenza”. È una pena indicibile leggere questi brani e poi ascoltare le parole che il figlio dice ad Adriana il 31 luglio ’95, quando papà torna a casa “profondamente cambiato” dopo 31 mesi di custodia cautelare: “Si sono presi mio padre e non me lo hanno più restituito”».
Lei dedica un capitolo a Dorina Polverari, moglie del deputato socialista di Lecco Pierluigi Polverari. La storia dei Polverari ricorda quella dei Craxi.
«È perfettamente sovrapponibile. Pierluigi è un socialista perbene, ma viene massacrato senza pietà. I giornali gli dedicano 320 articoli per dargli del ladro, lui subisce 30 processi e viene assolto 30 volte. Credo sia un record. Dorina è un’altra donna che la domenica mette il vestito buono: il diluvio si abbatte su di lei, lei non molla il timone della famiglia. Alla fine i Polverari vanno a vivere in Tunisia, scegliendo l’esilio, come mamma e papà. A Tunisi, Dorina cucina per mio padre, ricoverato in ospedale, le costine d’agnello e il minestrone. E lui, racconta Dorina, “mi stringeva la spalla e piangeva. Per il suo Paese”.
Nessuna di queste donne ha mai dubitato del marito o del padre?
«Ilaria Cirino Pomicino ha sempre votato Rifondazione. Dubitava, o meglio contestava il padre Paolo sul versante politico. Il suo arresto è stata una tragedia anche sul piano ideologico: le hanno tolto lo spazio per criticarlo».
Qualcuna però avrà messo in forse la correttezza del suo uomo.
«Mai. Anzi, la fedeltà e l’impegno hanno raggiunto livelli straordinari, eroici, se penso a Maria Teresa, morta per non trascurare il suo Salvatore».
Salvatore Ciancio, consigliere regionale del Psi campano.
«Lui viene arrestato nel 1993, lei gli dedica tutte le energie. Ma Maria Teresa è malata: è stata operata due volte in Svizzera e ha due valvole cardiache. Dovrebbe tornare in clinica, ma non se la sente di abbandonare il marito. Poi si decide ad andare a Zurigo. Troppo tardi. L’8 aprile 94 Maria Teresa muore sotto i ferri. L’attuale numero uno della Cgil Guglielmo Epifani la ricorda con una bellissima orazione».
Tante storie di tangenti, nessun accenno critico?
«E perché? A parte il caso Contrada, ancora aperto, tutte le altre vicende narrate si chiudono con l’assoluzione del presunto colpevole, sbattuto in galera e sui giornali. E comunque avrei dovuto raccontare anche casi di uomini colpevoli. Ho sbagliato, perché chi è colpevole deve pagare, è vero, ma non è giusto che sia sepolto vivo. Qui invece è stata sepolta un’intera classe politica, sono stati celebrati 4500 processi, sono stati inviati 25mila avvisi di garanzia, pari ad altrettante condanne a morte. Un disastro».
Ieri. E oggi?
«Nulla è cambiato. Io ho fotografato l’Italia degli anni Novanta, ma nello specchio si riflette l’Italia di oggi, le intercettazioni pubblicate dai giornali quest’estate per la vicenda Antonveneta. La morale è sempre la stessa: chi sta dalla parte sbagliata, chi si mette in testa di scalare i giornali e di andare contro i poteri forti e la magistratura, finisce alla gogna».
Lei difende il governatore Antonio Fazio e i suoi “amici”?
«Di più. Quando scriverò il seguito di Nella buona e nella cattiva sorte inizierò da Maria Cristina Fazio».


Il libro è dedicato a sua madre, ma di Anna Craxi non raccogliamo nemmeno una lacrima. Perché?
«Mia madre ha deciso di tacere e io condivido la sua decisione. Altre donne hanno avuto il coraggio di parlare. Il loro dolore è anche il dolore di Anna e Stefania Craxi».

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