Catturato l’assassino del parrucchiere gay

Stefano Vladovich

Incastrato dai vicini di casa. Non solo le impronte digitali su un giornale e sulla maglietta della vittima, anche la testimonianza oculare di alcuni dirimpettai che ricordano un giovane di media altezza, scuro di carnagione e con gli occhi leggermente tagliati a mandorla affacciato in balcone la domenica di Pasqua. Era il pomeriggio del 30 marzo 1997, poche ore prima di un atroce delitto. Nove anni di latitanza, alla fine Omar El Fizaoui, marocchino di 31 anni, è stato accusato dell’omicidio di Claudio Pavoni, 49 anni, coiffeur delle dive di piazza di Spagna. Un giallo che ha fatto impazzire per quasi un decennio i poliziotti romani alla ricerca di un fantomatico serial killer. Una storia dai contorni agghiaccianti: strangolato e finito a colpi di posacenere in testa, poi legato mani e piedi, «incaprettato», con il cavo dell’abat-jour. Il movente? Denaro, preziosi, oggetti di valore. Ma anche «patacche», come il falso Rolex sfilato dal polso della vittima, o il telefono cellulare.
Siamo in una palazzina sul mare di Ostia, in via Umberto Grosso, a pochi metri dal luogo dove qualche anno dopo nascerà il porto di Roma. Vicinissimi al campetto di calcio all’Idroscalo dove, 22 anni prima, viene ucciso lo scrittore Pierpaolo Pasolini. A rinvenire il cadavere, tre giorni dopo il fatto, i vigili del Fuoco e gli agenti del XIII commissariato, avvertiti dagli amici e parenti di Claudio, preoccupati per la sua scomparsa. L’Y10 della vittima è parcheggiata in strada, le luci dell’appartamento al secondo piano del civico 23 accese. Lui non risponde al telefono da ore. Sfondata la finestra della camera da letto, la macabra scoperta. Il corpo a terra in un lago di sangue, la casa a soqquadro, la porta chiusa a doppia mandata, le chiavi sparite. I piatti sporchi in cucina, resti di una cenetta a due. Pochi, però, gli elementi in mano agli inquirenti: prima di allontanarsi l’omicida ha pulito ogni traccia da stoviglie, interruttori, mobili. Le indagini prendono subito la pista dei delitti gay. Per la squadra mobile romana nel giro di tre mesi il cerchio si stringe attorno allo straniero. Ma Omar, all’epoca 22enne, è uccel di bosco. Scomparso fra i bassi dei quartieri spagnoli di Napoli e gli appartamenti occupati da clandestini alla periferia partenopea.
Nel dicembre scorso l’imprevisto: Omar viene preso in una retata, un’operazione come tante contro l’immigrazione clandestina. Quando i poliziotti della questura napoletana avvertono i colleghi della capitale, al magistrato, il pm Marcello Monteleone, non resta che riaprire il caso. El Fizaouri viene interrogato a lungo dagli uomini di Eugenio Ferraro, il dirigente della omicidi. Dal carcere di Poggioreale il sospettato nega tutto: «Pavoni? Chi sarebbe? A Roma non ho mai messo piede». I primi a riconoscerlo però, sono i compagni di vita che nel ’97 frequentano i giardini tra piazza dellae Repubblica e la stazione Termini, luogo preferito dai gay per gli incontri galanti. O meglio dove battono il marciapiede decine di marchettari disposti a tutto per pochi soldi. Storia vecchia già ai tempi di Giuseppe Pelosi, «Pino la rana», condannato per il delitto Pasolini. Pressato dalle domande Omar ammette: «Sì, Pavoni l’ho conosciuto a Roma ma non sono mai stato a casa sua. Soprattutto, non l’ho ammazzato io».

A inchiodarlo le testimonianze di varie persone che, allora, abitavano nelle palazzine del lungomare Duca Degli Abruzzi. «Veniva spesso, entrava anche quando il proprietario era fuori tanto che pensavamo fosse il figlio o un nipote. L’abbiamo visto in casa i giorni precedenti la domenica. Forse anche lo stesso giorno di Pasqua».

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