Il Centro Italia si ribella: crepe nel muro rosso

La sconfitta in Emilia-Romagna, Marche e Umbria dimostra che gli elettori di sinistra hanno abbandonato il voto di appartenenza

Il Centro Italia si ribella: crepe nel muro rosso

Roma - Mi avevano criticato, a dir poco, quando su questo giornale per ben due volte avevo pronosticato un risultato negativo del Pd alle amministrative, soprattutto nelle «zone rosse». A urne chiuse è andata persino peggio di come avevo immaginato. La linea Maginot delle amministrazioni di sinistra è crollata quasi dappertutto, dal Nord al Sud. Il successo di cinque anni fa in Puglia è stato azzerato, Napoli è passata al centrodestra, la Basilicata ha cambiato classe dirigente. Ma è nel cuore storico della sinistra italiana che è avvenuto il sommovimento più profondo e più doloroso.
L’avvisaglia c’è stata domenica notte quando i voti scrutinati in Emilia-Romagna hanno rivelato le prime crepe. Alle europee il Pd perdeva il 7 per cento dei consensi, in linea con la sconfitta nazionale. A piazza del Nazareno tutti hanno atteso con trepidazione lo spoglio per le amministrative sperando in una clamorosa risalita. A mano a mano che lo scrutinio avanzava le cattive notizie si accavallavano. Firenze e Bologna (con Bari al Sud), avrebbero dovuto dare la conferma della tenuta del Pd. Eppure proprio da queste due città è venuto il dispiacere più grande.
A Firenze il «giovane leone» Matteo Renzi è stato costretto ad un rischioso ballottaggio. Fra due settimane dovrà giocarsi una partita resa ancora più difficile dal rifiuto di apparentarsi con la lista guidata da Valdo Spini. Anche a Bologna il prodiano Delbono non ce la fa al primo turno. Qui il Pd scende al minimo storico. Il risultato è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi degli esperti di cose emiliane in quanto il Pd va sotto il 40%, ben dieci punti in meno delle precedenti e tradizionali consultazioni. D’un soffio evitata la catastrofe a Modena dove per soli novanta voti vince il candidato di centrosinistra. Neppure un comune tradizionalmente di sinistra come Marzabotto, luogo simbolo della Resistenza, resiste alla voglia di cambiamento e relega il candidato della coalizione guidata dal Pd a un misero 22,7%. Già le provinciali avevano dato il segnale d’allarme con la sconfitta di Piacenza e il ballottaggio a Ferrara, Parma e Rimini. Stesse delusioni in Toscana dove Prato è sempre meno rossa.
Il panorama appenninico si rivela uno dei punti più dolenti di questa tornata elettorale. Colpiscono soprattutto i risultati lusinghieri che quasi dappertutto, ma particolarmente in Emilia-Romagna, raccontano lo sfondamento della Lega. Dopo la caduta delle roccheforti operaie al Nord, passate al centrodestra e spesso egemonizzate dal voto leghista, ora anche nel Centro Italia l’antica base elettorale di sinistra tende a sgretolarsi. Già si era visto con il voto europeo che aveva ridotto a due le regioni a prevalente voto di sinistra. Marche e Umbria, infatti, sono clamorosamente passate al centrodestra. Questa analisi del voto dovrebbe inquietare il gruppo dirigente del Pd che troppo frettolosamente ha gridato alla scampato pericolo.
L’insediamento elettorale della sinistra, infatti, è tradizionalmente fondato su un bacino elettorale costituito dalle quattro regioni centrali che ha assicurato una sorta di zoccolo duro, immobile nel tempo. Spesso è venuto dal Sud, in particolare dalla Campania e dalla Puglia, un più forte suffragio che unito a quello di alcune zone operaie del Nord aveva assicurato al Pci e ai suoi eredi un patrimonio di consensi che lo aveva reso competitivo. Ci sono state stagioni politiche in cui il partito meridionale dava qualcosa in più, come nella precedente tornata amministrativa, altre in cui le lotte sociali avevano consegnato maggiori consensi al Nord. Ma il sistema elettorale della sinistra si è retto attorno al polo centrale che appariva inespugnabile. Qualche politologo aveva parlato di una sorta di «Lega rossa» coriacea ai cambiamenti.
Dieci anni fa ci provò Guazzaloca a rompere il muro di Bologna riuscendo a sorpresa a battere una candidata di sinistra particolarmente gauchista. Ma è stata la Lega (quella vera) a incunearsi più in profondità fra le radici della sinistra di tradizione.
Il voto del 2009 sarà ricordato come il voto dello sfondamento. L’effetto psicologico degli insuccessi, dei ballottaggi, delle vittorie strappate di misura rischia di diventare più devastante del voto reale. In primo luogo cade la barriera che ha tenuto separato rigorosamente l’elettore di sinistra da quello di destra. Spesso a Reggio Emilia, come a Piacenza o Parma le richieste securitarie hanno spinto migliaia di elettori a spostarsi sul partito di Bossi. Ma questa volta è stato lo stesso Antonio Di Pietro a erodere consensi che non sono più in libera uscita ma stabilmente trasferiti in altre formazioni politiche. Il voto nelle regioni rosse non è più scontato e la concorrenza si fa più spietata.

Il centrosinistra paga l’indebolimento della sua componente più forte, quella che viene dalla tradizione socialista e comunista, né guadagna nuovi consensi dall’affermarsi di candidati cattolici di rito prodiano. È ben più che un campanello d’allarme. È una vera e propria inversione di tendenza. Nell’Italia di domani non ci saranno più zone di voto di tradizione o di appartenenza. E questa è una vera e propria rivoluzione.

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