La cerva bianca uccisa dai soviet

Fiabesco e feroce. È un romanzo Il battello bianco. E il russo Tschingis Aitmatov lo scrisse nel 1970. Suona come una favola però, il racconto di una leggenda kirghisa. E Giliola Venturi che lo ha splendidamente tradotto potrebbe benissimo averlo trascritto dalla voce di un contadino invecchiato senza mai allontanarsi dalla sua capanna nella taiga. Con l’accorgimento di traslitterare in corsivo le parole della sua lingua remota. Aul: comunità nomade. Baj: principe feudale. Astapralla: Dio ci protegga. Maral: cervo siberiano dalle grandi corna ramificate.
Un vecchio, un nonno, è l’umile eroe della storia. Un bimbo, il suo nipotino, ne è l’esclusivo testimone. L’età li accomuna e li tiene legati all’epoca in cui le parole del loro idioma evocavano un senso vivo, non la traccia di un reperto. Quando un aul era un centro vitale, non un satellite del sovchoz. Il baj, nobile possidente, non era ancora un pezzente espropriato. E la devota invocazione Astapralla poteva rivolgersi alla Grande Madre, la regale cerva bianca, nume tutelare venerato dalla gente delle montagne kirghise come capostipite e custode della stirpe. Alla potenza numinosa della bestia che abita le foreste della Siberia si crede per forza. Perché alla fine - fine violenta e cruenta - il cattivo di turno ricorrerà alla bruta forza pur di strapparle corona e potere. Convinto che l’osso duro delle sue corna si potesse stringere fra le mani come trofeo di vittoria e simbolo di una caduta.
Può essere che l’autore di Il battello bianco non si sia inventato niente. Che ad Aitmatov bastasse allungare la mano per toccare i rami cresciuti sulla testa della cerva, un tempo emblema vivo e poi animale araldico e mitologico. Una legge non scritta del suo popolo vuole che ogni kirghiso sappia risalire a memoria, in linea ascendente per sette generazioni, l’albero genealogico della propria famiglia. Di sicuro sono meno di sette le generazioni che riportano l’autore - nato nel 1928 - al passato in cui il Kirgizistan non era unito alle Repubbliche socialiste sovietiche. Né ancora privato, in nome del comunismo, delle sue tradizioni. Ma la storia politica del suo Paese non avrebbe messo a tacere quella mitica della sua etnia. Ministro di Gorbaciov durante la perestrojka, lo scrittore proseguì la carriera diplomatica in Belgio e Lussemburgo.

E, sulla scia di Il battello bianco, sull’eco della Melodia della terra (il suo capolavoro del 1958: una storia tutta kirghisa, per Louis Aragon «la più bella storia d’amore del mondo»), perorava la causa delle minoranze etniche d’Eurasia.

Tschingis Aitmatov, Il battello bianco (Marcos y Marcos, pagg. 202, euro 14,50).

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