Cgil: "Niente violenza in fabbrica" Sacconi: "Tono da guerra civile"

Le parole del titolare del Welfare, che parlando della battagli in atto sull'articolo 18, faceva presente la sua preoccupazione per un ritorno di fuoco del terrorismo nelle fabbriche, scatenano un vespaio. La Cgil attacca, negando tutto, spalleggiata dalla sinistra parlamentare. Il Pd chiede un'interrogazione parlamentare. Sostegno dal centro-destra, dove il Sottosegretario all'Interno commenta facendo presente come "il tono del dibattito si stia inasprendo". E Sacconi rincara la dose: "Non c'è più un movimento eversivo, ma non sottovalutiamo le spinte ribellistiche"

Cgil: "Niente violenza in fabbrica" Sacconi: "Tono da guerra civile"

Giù le mani dai lavoratori. La leader della Cgil, Susanna Camusso, salta alla gola del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, reo di aver espresso, nei giorni scorsi, la propria preoccupazione su un possibile ritorno del terrorismo nelle fabbriche. La battaglia in atto per l'articolo 18 si sta, infatti, infuocando sia in parlamento sia in piazza. Con buona parte della sinistra che prende di mira il governo per il pacchetto anti crisi presentato dal premier Silvio Berlusconi, settimana scorsa, all'Eurogruppo. Le parole di Sacconi hanno, subito, destato le accuse dell'opposizione e della Cgil. Accuse che sono state prontamente respinte dal sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, seriamente preoccupato per "l'inasprimento dei toni del conflitto sociale".

Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, risponde al ragionamento del ministro, smentendo categoricamente il discorso e in un'intervista a Repubblica fa notare che "nelle fabbriche, negli uffici, nei luoghi di lavoro non c'è alcun segnale che faccia presagire un ritorno agli anni della violenza politica", riprendendo di fatto le dichiarazioni di ieri sera, quando a In mezz'ora, il programma di Lucia Annunziata commentava il discorso di Sacconi con uno "spero che parli perché ha elementi per farlo e non per inquinare un clima già difficile".

I riferimenti a Biagi e d'Antona, alla situazione di tensione e non di rado di violenza che in Italia tende a crearsi ogni volta che si parla di crescita, alla sindacalista non sono piaciuti. La Camusso riduce il ragionamento del ministro a un tentativo di allontanarsi dal cuore del problema, "mentre sono il lavoro e i licenziamenti il tema al centro della discussione", dimenticando in realtà come il ministro sull'argomento si sia già espresso, spiegando il perché delle misure anticipate, dall'eliminazione dell'articolo 18, alla riforma dei contratti, dalle pagine del Corsera.

E continua "se un ministro della Repubblica fa affermazioni di questo tipo dovrebbe aver qualche elemento. E se ce l'ha non dovrebbe costruire un clima di preoccupazione e usarlo come argomento per sostenere la sua tesi sui licenziamenti, ma dovrebbe chiedere un intervento del ministro dell'Interno e chiedere al parlamento di affrontare questo tema per mettere in atto tutte le misure per scongiurare qualsiasi azione violenta".

Il discorso di Sacconi, il riferimento al clima che si respirava prima dell'uccisione di Marco Biagi, ha in realtà un minimo di fondamento. Primo fra tutti il fatto che anche nei mesi precedenti l'uccisione di Biagi lo scontro in atto era quello sull'articolo 18. Ma la Camusso non ci sta e rifiuta di pensare che "una discussione inevitabilmente vivace su una questione molto sensibile, come quella dei licenziamenti, possa di per sé evocare il terrorismo" e risponde, ricordando come l'omicidio Biagi sia avvenuto sì in un momento di discussione sullo stesso tema, ma "al termine di una lunga stagione di terrorismo che riuscì a entrare in alcune fabbriche ma trovò proprio nel sindacato un baluardo fondamentale". E conclude, ricordando che in ballo "ci sono altri fenomeni, come quello che abbiamo visto all'opera il 15 ottobre scorso a Roma. Ma non mi pare proprio che siano soggetti anche solo lontanamente identificabili con i lavoratori o abbiano qualche attinenza con la discussione sui licenziamenti o il mercato del lavoro".

Sulla stessa linea la risposta dell'Idv, che attraverso una nota di Felice Belisario, presidente dei senatori Idv, chiede "se il ministro ha prove tangibili", che ne riferisca in parlamento, mentre Olga D'Antona, deputata del Pd e vedova di Massimo d'Antona, sintetizza nel suo commento l'idea "che evocare gli anni di piombo non è mai opportuno", ammettendo però come quello del terrorismo sia un problema italiano difficile da risolvere, come un "fenomeno carsico", che per quanto rimanga sommerso per periodi più o meno lunghi, "può poi tornare a comparire". E sempre dal Pd arriva la richiesta di rivolgere "al ministro Maroni una interpellanza urgente perchè riferisca quanto prima al Parlamento circa l’esistenza tangibile di informazioni che comprovino le dichiarazioni del Ministro del Welfare".

E mentre la sinistra si mostra critica sulle affermazioni di Sacconi, diversa è la reazione a destra, dove il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano difende il collega, aggiustando l'interpretazione del suo discorso e facendo presente che "non esistono le Br come esistevano 30 o 10 anni fa", ma che l'inasprimento dei toni nel conflitto sociale desta "fondata preoccupazione", mentre Alemanno invita a misurare le parole di Sacconi, tenendo soprattutto presente la sua amicizia con Biagi e il fatto che di conseguenza "per lui l'attacco ai giuslavoristi ha lasciato il segno".

A ritornare sulla questione è anche lo stesso ministro Sacconi, che in una nota specifica meglio il suo pensiero, facendo notare come i progetti di eversione terroristica "non nascano da lucide elaborazioni estremiste", non vengano quindi da una progettualità esistente a livello partitico, ma "dal ventre della società", da una serie di pulsioni che si sprigionano quando "linea politica e dialettica politica da strada" finiscono per collidere. Non è "un movimento eversivo" quello che preoccupa il titolare del Welfare, ma "l’esistenza, nel nostro Paese, di spinte ribellistiche di non sottovalutabile potenzialità eversiva".

Un pensiero che si dirige chiaramente verso i fatti di Roma che, se non sono certo segno di una guerra intestina, sono però signifiativi di "una dialettica da guerra civile", nella quale il Paese è immerso, sintomatici non solo "dell'insofferenza giovanile", ma soprattutto del lavoro di "nuclei organizzati" che operano perché il semplice disagio diventi rivolta.

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