«Che anni! Eravamo come in un fortino assediato»

«Che anni! Eravamo come in un fortino assediato»

«È stata una delle più forti redazioni giornalistiche del tempo». Emanuele Dotto entrò nella redazione genovese del Giornale il 21 giugno del 1977: «Il giorno del mio compleanno - ricorda - un mese prima avevano gambizzato Montanelli».
Il ricordo è forte e anche commovente nelle parole di colui che oggi è una delle voci radiofoniche più brillanti della nostra radio italiana.
Come mai arrivasti alla redazione di Vassallo?
«Io allora ero al “Mercantile” di Umberto Bassi. Scrivevo di sport e solo sport. Venni chiamato da Vassallo per occuparmi... un po’ di tutto. Un invito per me importante, entrare in una redazione come quella del Giornale era, allora, un onore non da poco».
Era nata da un anno e poco più...
«Sì. Dovetti sostenere, fra l’altro, una specie di esame molto robusto, per me più impegnativo di quello che mi fece diventare professionista. Mi ricordo incontrai Montanelli, il presidente Biazzi Vergani, Gianni Ferrauto. Una cosa seria. il Giornale prima di assumere un giornalista voleva garanzie di ogni tipo e soprattutto professionali».
Erano anni difficili per voi e per la città?
«Molto e, ti dico la verità, era anche un po’ pericoloso, perché erano gli anni di piombo, dominavano le brigate rosse, proprio in quei giorni venne ucciso il commissario Esposito. Girare col Giornale in tasca era pericoloso. Insomma un periodo nero che, tuttavia, ricordo con grande amore, perché lavorare in quella redazione sembrava quasi un immolarsi per una causa».
Chi avevi come colleghi?
«C’era un gruppo di valentissimi giornalisti: a parte Vassallo che tu hai descritto benissimo nel tuo “ricordo”, poi Manzitti cronista di lusso e conoscitore della Genova come pochi, poi Merani uomo di vastissima cultura, quindi Pippo Zerbini un segugio di cronaca nera, non gli sfuggiva nulla, Pasqualino Martini, Paternostro che arrivava dal “Lavoro”. Mai visto una redazione così forte professionalmente».
Quanto sei rimasto?
«Circa due anni. Poi venni chiamato in Rai. Ti dico che ci pensai parecchio prima di accettare. Vassallo mi diceva: come lavori qui non lavorerai da alcuna parte. Ed aveva ragione: le mie più belle soddisfazioni le ebbi infatti proprio al Giornale. D’altra parte avevo anche un sogno: fare il radiocronista e quella occasione non volli perderla. Ma mi dispiacque molto. Davvero».
Come era il clima allora?
«Potevamo paragonarci ad un “fortino assediato”. C’era fra di noi un fortissimo spirito di squadra, avevamo l’impressione di essere “soli contro tutti”. Non dimenticare che il Giornale era considerato un foglio “fascista”. Era una Genova da trincea. Oggi è difficile spiegare i tempi di allora, a mia figlia che ha vent’anni non riesco a spiegare come era possibile che, allora, uscivi di casa alla mattina e così improvvisamente ti potevano gambizzare. Solo chi ha vissuto quei momenti può capirli».
E i rapporti con i... nemici?
«Ti devo dire che nonostante fossimo su una certa sponda, i rapporti con gli avversari erano corretti. Io personalmente avevo un ottimo rapporto col console Batini, molti assessori e sindacalisti comunisti accettavano il dialogo (allora la parola aveva un senso). Poi c’erano anche fasce istituzionali ti boicottavano, magistrati ad esempio che difficilmente ti davano delle notizie di prima mano...».
Due anni di bella esperienza insomma...
«Devo dirti che sono stati gli anni della mia formazione. Vassallo era un grande maestro: pensa che ogni tanto quando uno di noi faceva il turno di notte doveva chiudere a mezzanotte. Ebbene: a mezzanotte e un minuto esatto telefonava Vassallo: “Ci sei?”. Guai se non ti avesse trovato. Diceva: “Meglio un minuto in più in redazione che in meno...”. Un maestro di vita».
Non eravate molti a sostenere tutti gli eventi...
«Diciamo che eravamo quattro gatti, ma pensa, coprivamo tutto e a volte come si dice in gergo davamo anche dei “buchi” ai colleghi. Coprivamo tutto perché da noi si lavorava veramente da mattina a sera: questura, Comune, redazione, sport, servizi, consiglio comunale, regione. Non avevamo tempo per un caffè che ci facevamo portare da Cavo, in via Brigata Liguria».
Però la Rai ti aveva conquistato...
«Sì, ma rivendico ancora oggi con orgoglio il fatto di aver preso parte a quella redazione. Mi son sentito un pioniere.

Ripeto, per me è stata la più bella esperienza professionale. Se sono in Rai lo devo anche al Giornale».
Torneresti indietro?
«Tornerei solo per rivedere il sorriso beffardo di Vassallo quando riusciva a dare un “buco” agli amici dell’Unità...».

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