In Francia c’è un detto scurrile: «La parola conservatorismo comincia male» (per i francesi «con» è come «mona» per i veneti). Ciò non spiega tutto, ma resta che nessun politico, movimento, giornale o rivista del Paese s’è mai definito «conservatore». Invece in Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Canada i conservatori sono una famiglia a parte intera e il termine è molto usato (non negativamente) per indicare un’area politico-culturale, dove coesistono varie tendenze; e poi questa corrente di pensiero ha una forte tradizione intellettuale (da Hume a Oakeshott, passando per Burke e Coleridge, nel caso dei Whigs inglesi), mentre «conservatore» e «conservatorismo» si fanno notare per l’assenza dal vocabolario politico francese.
Naturalmente la parola esiste (è d’origine francese, del resto), ma la si usa quasi solo come peggiorativo. Un «conservatore» in Francia è anzitutto un reazionario, legato al passato, contrario a ogni novità, ansioso d’impedire ogni evoluzione sociale: uno che vuol mantenere l’ordine sociale esistente (lo statu quo) a ogni costo, sempre che non sogni un’impossibile restaurazione o un «ritorno» ai valori tradizionali (statu quo ante), perché «prima tutto era meglio». Nel migliore dei casi, il conservatorismo è un bel museo, ma un museo morto. Definizione che Edmund Burke non avrebbe sottoscritto, perché per lui «uno Stato senza mezzi per cambiare è anche senza mezzi per durare» (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790, tr. it., Utet).
In Italia la situazione è simile: «conservatore» ha assunto una risonanza peggiorativa e raramente si sono definiti così autori ora considerati tali, da Benedetto Croce e Giuseppe Prezzolini ad Augusto del Noce, Giovannino Guareschi, Elémire Zolla e Sergio Romano, passando per Vilfredo Pareto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Maffeo Pantaleoni, Giovanni Papini, Luigi Pirandello e Leo Longanesi.
Anche la sinistra francese ha spesso denunciato figure e movimenti di destra come «conservatori», inadatti al cambio dei costumi e a rispondere alle sfide del tempo. Ma la destra usa il termine anche per stigmatizzare l’«arcaismo» dei sindacati e il «passatismo» di ecologisti e Verdi. Più in generale la classe politica d’ogni tendenza chiama «conservatrici» le reticenze del corpo sociale davanti alle riforme «necessarie». Su Le Figaro un giornalista commentava così le difficoltà del governo per far approvare le riforme (scuola, audiovisivo, sistema sanitario e pensionistico, ecc.): «Conservatorismo, fatalità francese?».
Una frazione della destra francese - certi ambienti liberali - ha elogiato il «conservatorismo» solo all’epoca della «rivoluzione conservatrice» di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, o più di recente per simpatia verso i «neoconservatori» attorno a George W. Bush. Gli stessi ambienti hanno talora presentato Nicolas Sarkozy, di cui avevano sostenuto la candidatura presidenziale nell’aprile 2007, come capace di compiere - sull’esempio di Reagan e della Thatcher, ma anche di Aznar in Spagna, Howard in Australia e Koizumi in Giappone - una «rivoluzione conservatrice alla francese». Il termine «conservatore» era allora usato nel senso anglo-americano. Ma Sarkozy ha subito respinto l’etichetta: «La forza dei conservatorismi non va sottovalutata. La loro capacità di nuocere è certa, ma la loro forza è minore dell’aspirazione naturale d’ogni società ai cambiamenti, alla riforma, alla modernizzazione».
In Germania si chiama «conservatorismo» ciò che in Francia è «destra». Ma i due termini non sono esattamente sinonimi. In Francia si distinguono tre grandi famiglie a destra: la contro-rivoluzionaria, forte nel secolo XIX (quando i monarchici erano ancora una forza politica e le istituzioni repubblicane non erano ancora bene in sella); la destra bonapartista, che ha condotto alla destra rivoluzionaria, al fascismo e al gollismo; la destra «orleanista», cioè liberale, oggi largamente dominante. Come spiegare l’assenza del «conservatorismo» nel paesaggio politico francese? Per rispondere, François Huguenin ha appena pubblicato Le conservatisme impossible. Libéraux et réactionnaires en France depuis 1789 (ed. La Table ronde).
Huguenin dà una spiegazione storica. Osservando che in Germania e nei Paesi anglosassoni fra i conservatori ci sono tanto «nazionali» quanto «liberali», sottolinea che tale alleanza è divenuta impossibile in Francia con la rivoluzione del 1789. Infatti essa ha opposto irrimediabilmente chi negava del tutto le idee rivoluzionarie (da Joseph de Maistre e Louis de Bonald a Charles Maurras) e chi, a destra, ne accettava l’essenziale, pur rifiutandone la pratica (da Alexis de Tocqueville e Benjamin Constant a Raymond Aron e Bertrand de Jouvenel). Certo gli uni e gli altri, per lo più, hanno denunciato la passione dell’uguaglianza e della religione della sovranità popolare difesa da Jean-Jacques Rousseau, ma da punti di vista ben diversi. Infatti i liberali continuano a vedere nei principi rivoluzionari principi emancipatori, latori di libertà, e rifiutano gli aspetti propriamente bellicosi e virtualmente totalitari del movimento, di cui testimoniano il genocidio in Vandea e il Terrore.
«Il popolo onnipotente è più pericoloso che un tiranno», diceva Benjamin Constant. Invece i contro-rivoluzionari, vedendo nella Rivoluzione un «blocco» indissociabile, ne condannavano i principi in toto. I due campi si sono così scissi definitivamente, rendendo impossibile ogni «conservatorismo». Nei secoli XIX e XX la destra liberale, acquisita all’ideologia del progresso, legata al primato individuale e tradizionalmente diffidente del potere politico, s’è sempre opposta a una destra che, tradizionalista o no, invece difendeva in primo luogo le prerogative statali, il concetto di «bene comune» e una concezione organica e comunitaria della vita sociale. Per complicare tutto, a queste destre, una contro-rivoluzionaria e l’altra liberale («orleanista»), s’è presto aggiunta la terza, la destra «bonapartista», di cui s’è parlato, tipica per la rivalutazione della rivoluzione francese, un partito preso a favore del popolo (e delle classi popolari), una certa indifferenza per i temi religiosi, un’adesione senza riserve ai principi repubblicani e un certo favore per forme di governo autoritarie o plebiscitarie.
Deplorando tale situazione, Huguenin auspica l’unificazione delle due correnti in un vasto movimento «conservatore» e invita i liberali ad abbandonare l’idealismo morale, centrato sui diritti individuali, l’inclinazione a rifiutare il principio stesso dell’autorità politica in nome delle prerogative dell’economia e del mercato, dandosi una «visione positiva del potere». Gli eredi dei contro-rivoluzionari dovrebbero invece rinunciare alla visione assolutista della sovranità, alle reticenze per la democrazia e alla stessa idea di libertà. Tesi commentata (il giornale monarchico Les Epées ha presentato il conservatorismo come «idea d’avanguardia»), ma senza effetto.
Ma la spiegazione di Huguenin non vale per l’Italia, che non ha avuto la Riforma, ma solo la Controriforma, né la Rivoluzione, ma solo l’occupazione francese. Nel 1950 il politologo inglese R.J. White scriveva: «Imbottigliare il conservatorismo, con tanto d’etichetta, è come voler liquefare l’atmosfera \[...
\]. La difficoltà sta nella natura della cosa. Più che dottrina politica, il conservatorismo è abitudine spirituale, modo di sentire, modo di vivere».
(Traduzione
di Maurizio Cabona)
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