Che meraviglia «Lady Macbeth» di Shostakovic

da Milano

Ci sono opere «difficili» che si arriva a capire attraverso lo studio ampio ed accorto. Noi musicologi ed esperti di teatro ci impegniamo a spiegare il linguaggio complesso e non consueto, l'ambientazione lontana, i personaggi diversi dalla tradizione, per aprire un varco verso un mondo che non ci appartiene. Questi ingredienti sono presenti tutti nell'opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, di Dimitri Shostakovic, che inoltre è angosciosa, zeppa di fatti e di parole grevi, con personaggi tutti sgradevoli, per nulla virtuosi e poco intelligenti. Eppure credo sia inutile e impossibile definire criticamente quel grumo di passionalità, di concentrazione, di piacere intellettuale, di adesione immediata che cattura oggi gli spettatori al primo incontro come è accaduto fortemente alla Scala.
Katerina Ismailova, insoddisfattissima popolana moglie di un mercante più agiato che attraente o virile, in sua assenza cede rapidamente ad uno sfrontato servo giovane, avvelena il suocero voglioso e fa uccidere il marito geloso, sposa l'amante, viene deportata con lui quando nella festa nuziale si è trovato il secondo cadavere, e in viaggio, derisa dalla nuova donna dell'amante, la uccide, annegandosi con lei nelle acque gelide. Per raccontare tutto questo, l'autore, nato nel 1906 a Mosca, intriso d'opera russa e di tradizione popolare, definisce i personaggi nella pienezza del canto, e li immerge in un'orchestra di fantasia cruda e stupefacente, con tempi e colori drammaturgici di evidenza sottilmente espressionistica. Insomma, prende il passato della sua terra e le risorse dell'arte contemporanea e futura e lascia che vivano a nulla soggetti se non alla loro pienezza. Così l'opera, con il suo pessimismo fatale e la sua tristezza dell'inerzia umana, che un breve coro finale esprime memorabilmente, finisce per lasciarci carichi d'un febbrile senso di vita.
Aveva meno di ventisei anni, Shostakovic, quando la compose, e ventotto quando la presentò; poi, dopo l'intervento famoso di Stalin che riteneva la sua arte piccoloborghese, dovette modificarla e fu nota col titolo Katerina Ismailova. Ora è tornata integra ed è un classico. Ma a Londra, nella produzione arrivata alla Scala, l'hanno messa in scena con la provocatoria forza d'un teatro nato oggi. Il regista Richard Jones, con le scene di Macfarlane e i costumi di Linda Dobell (finalmente costumi che raccontano) ha rinunciato alle suggestioni della natura (giardino, lago...) e dell'epoca, ambientandola in stanze vaste e chiuse ai nostri giorni. Ha esorcizzato la volgarità, lasciando la violenza bestiale verso le donne nel suo realismo ma con l'ironia di immagini grottesche. Tutti hanno creduto pienamente in ciò che facevano, e la direzione di Kazushi Ono ha permesso loro di esprimersi con ampio respiro e notevole equilibrio sonoro.

Grandi interpreti, ma proprio grandi, Evelyn Herlitzius, Katerina, e Anatolij Kotscherga, il suocero; mirabili Christopher Ventris, Carol Wilson, il gustosissimo Taihwan Park, Natascha Petrinsky; ma sono tutti da festeggiare. Com'è accaduto esplosivamente.

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