Che personaggi quei vicini di sdraio

Cronache da spiaggia di fine estate. Strani incontri di uno scrittore alle prese con le sue creazioni, in carne e ossa

Che personaggi quei vicini di sdraio

Non capita tutti gli anni di avere come vicini di ombrellone i personaggi dei propri romanzi. Per fortuna, devo aggiungere, vista la mia esperienza di quest’estate. Come tutti gli anni, avevo prenotato ombrellone e cabina per le due ultime settimane di agosto al bagno 2 della ridente località balneare di ***.
Generalmente, il fine settimana prima delle ferie facciamo una ricognizione preliminare del terreno, per evitare sorprese: studiamo i possibili vicini di ombrellone, ne analizziamo numero, abitudini e rumorosità, in modo da scegliere il posto ideale. O quello meno problematico. Quest’anno avevamo individuato e prenotato un ombrellone perfetto, in terza fila. A destra una famiglia svizzera molto tranquilla, a sinistra una coppia di tedeschi anziani, il maschio con alcune cicatrici, probabilmente di guerra. È una specie in via di estinzione. Quando ero piccolo era normale vedere turisti tedeschi senza un braccio o una gamba.
Il primo giorno di ferie, carichi di ottimismo, lozione solare e giochi per bambini, scendiamo in spiaggia. Nella nostra spiaggia. Andiamo al nostro ombrellone. Ma al posto dei tedeschi e degli svizzeri ci sono due famiglie italiane. Ma non due famiglie italiane qualunque. Sotto l’ombrellone alla mia sinistra (guardando il mare) c’è il signor Giulio Rovedo, con moglie e un bambino fra gli otto e i dieci anni (per dettagli più precisi dovreste chiedere a mia moglie). Rovedo è un quarantenne che lavora nell’ufficio legale di una banca. Quando ci ha visti arrivare ci ha squadrati come un cecchino (poi mi sono reso conto che io devo averlo scrutato allo stesso modo). Poi ha bofonchiato un «buongiorno» col minimo di cortesia possibile. Vedendomi in difficoltà con l’apertura dell’ombrellone, Rovedo ha fatto un sorriso e si è rimesso a leggere il suo giallo.
Chi si è invece alzato subito per aiutarmi è il vicino di destra (o di sinistra nel pomeriggio, quando per abbronzarsi tocca dare le spalle al mare), un cinquantenne soprappeso che sembrava il fratello più giovane di Gianfranco Ferré. Ha cercato di aiutarmi nell’impresa di aprire l’ombrellone, con risultati tragici. Succhiandoci ognuno un dito contuso (ognuno il proprio, ovviamente) ci siamo presentati. Alberto Mendini è un pubblicitario. Sulla sua sdraio c’è il romanzo di Alessandro Piperno, Perceber di Leonardo Colombati e un paio di riviste americane, un lettore di MP3 e tre GameBoy. Due (quello blu e quello fucsia) sono dei figli di Mendini, Gaia e Matteo. Il terzo - coi disegni tribali - è il suo. La moglie di Mendini, durante le presentazioni, è in acqua. «Di solito si fa un paio di vasche fra qui e l’Istria. Verso le sette di sera torna», ha detto sconsolato, rimettendosi a leggere National Geographic in inglese.
Mi sentivo strano, camminando verso l’ufficio della spiaggia. Ancora più strano mentre spiegavo all’impiegata perché volevo cambiare ombrellone. «I miei vicini sono personaggi dei miei romanzi».
«Ti è andata bene», ha sorriso mia moglie, quando con la faccia sconsolata sono andato a dirle che secondo la direzione della spiaggia quello non era un motivo sufficiente per cambiare ombrellone. «E comunque non ce n’è un altro disponibile».
«In che senso, mi è andata bene?», le ho chiesto.
«Pensa se invece di essere personaggi dei tuoi libri uscivano, per dire, da Dracula. O da un romanzo di Palahniuk. O pensa se al posto dei Rovedo c’erano i Buddenbrook al completo...».
All’inizio, fra l’altro, la convivenza è andata meno peggio di quanto pensassi. I miei due bambini avevano fatto subito amicizia con Olivier Rovedo e con i due piccoli Mendini, e fra mia moglie e le altre due si era creata un’embrionale amicizia, favorita dai resoconti sui difetti dei rispettivi coniugi. Che erano, appunto, il vero problema. Io mi portavo dietro ogni giorno in spiaggia le bozze del mio nuovo romanzo, ma lavorare era impossibile, con quei due vicini di ombrellone. Rovedo manifestava la sua ostilità facendo commenti a voce teoricamente bassa ma in realtà in grado di essere agevolmente percepita anche sull’altra sponda dell’Adriatico. Commenti sulla gente che lavora anche in vacanza, ad esempio. E mi guardava di sottecchi. Sui venditori ambulanti. Sul rincaro di dieci centesimi del gelato al bar. Sui turisti domenicali che piazzano i teli sul bagnasciuga: per arrivare all’acqua, Rovedo ignorava debitamente i corridoi sgombri, e camminava sugli asciugamani. Mendini mi dava altrettanto fastidio, ma per motivi diversi. Una mattina in cui avevo deciso di non scrivere e di rilassarmi steso al sole, mi si avvicina con un quotidiano e mi fa: «Senti, non è che mi daresti una mano a finire questa griglia del sudoku?».
«Di che?».
«Di questo gioco, vedi? C’è una sola regola: bisogna riempire la griglia in modo tale che ogni riga, ogni colonna e ogni riquadro contengano una sola volta i numeri da 1 a 9...».
L’ho guardato come Dio deve aver guardato Caino quel famoso giorno. «Io non faccio il sudoku», ho sibilato.
«E perché no? È un gioco intelligente».
«Premesso che non sono d’accordo, sto già facendo, o cercando di fare, qualcosa di intelligente».
Questa è la stessa risposta che nei giorni seguenti ho dato a qualsiasi proposta di attività da parte dei miei due confinanti, dalla passeggiata sull’arenile alla birra al bar. Presto, per fortuna, hanno cessato di tentare di coinvolgermi, e si sono messi a interagire l’uno con l’altro, con me che li guardavo. E che soprattutto li ascoltavo.
Mentre cercavo di concentrarmi sul mio lavoro li ho ascoltati parlare un po’ di tutto: di bombe nella metropolitana, di calcio, di cani abbandonati, di come si fa volare un aquilone o uno Shuttle o si combatte il fenomeno dell’acqua alta a Venezia. I due avevano opinioni invariabilmente discordi, e altrettanto invariabilmente entrambe sbagliate. Almeno per me. Erano agli antipodi anche nel modo di comportarsi: Mendini si lamentava che la gente non facesse la raccolta differenziata dei rifiuti da spiaggia, mentre Rovedo seppelliva tranquillamente le carte del gelato sotto la sabbia. Mendini criticava la vecchia Clio smarmittata di Rovedo, e questi non perdeva occasione di canzonare il SUV Lexus del pubblicitario. Ognuno dei due sosteneva che l’auto dell’altro inquinava di più. Una bella gara.
Un giorno uno dei vu’ cumprà che passavano al ritmo di uno ogni cinque minuti ha proposto al nostro piccolo condominio da spiaggia l’acquisto di un orologio. «Rolex Daytona - insisteva, col suo accento africano - 90 euro invece di 4mila». Il prezzo lasciava supporre che non si trattasse precisamente di un prodotto originale.
Sia Rovedo che Mendini si sono messi a discutere con lui. Mendini gli ha chiesto da dove veniva, e come si chiamava, suscitando reazioni e risposte quantomeno evasive. Rovedo invece, non faceva domande. Dopo aver palpato e provato il Rolex, si è messo a contrattare sul prezzo. Alla fine, quando è arrivato a tirare fino a 45 euro, ha detto a muso duro che lui gli orologi taroccati non li compra, e che sui giornali c’era la storia di un poveretto che aveva dovuto pagare 3.000 euro di multa per averne comprato uno. È stato Mendini, alla fine, a tirare fuori di tasca 50 euro. «Però mi assicuri che è automatico», ha implorato.
«Garantito, amico! Però mi dispiace ma non ho il resto, vedi?».
«Tieni pure», ha sospirato Mendini.
E il giorno dopo eccolo lì, seduto sotto l’ombrellone, a guardare sconsolato il suo orologio che alle nove del mattino segnava le 8 e trentuno.
«Forse è il fuso orario della Nigeria», ha osservato crudelmente Rovedo. «Ben ti sta. Il fatto è che non se ne può più di questi immigrati. Domani vi porto l’elenco telefonico di Pordenone. Nella prima pagina, su una settantina di nomi, ci sono dodici africani e un albanese».
«Figurarsi sotto la X o la Y», ha commentato Mendini, sarcastico.
E Rovedo, serio: «Tutti dei loro. Cinque su sei sotto la X. L’unico non dei loro è un concessionario della Xerox. Quattro su sei alla Y. 19 stranieri su 21 con la W. Si salvano solo la Wind e la Whirlpool».
«Che tanto italiane non sono neanche loro. Cosa vuoi farci?».
«E nella tua città immaginaria?», ho chiesto a Mendini. Nel mio terzo romanzo l’ho fatto vivere, appunto, in una città immaginaria.
«Beh, lì è un po’ come a Pordenone. Però bisogna imparare a conviverci, con queste cose».
Il suo orologio, nel frattempo, si era fermato.

Sospirando, Mendini ha alzato gli occhi verso i due orologi piazzati sulla rotonda del bar.
Uno faceva le 9 e un quarto, l’altro le 9 e quaranta.
(2. Fine. La precedente
«Cronaca di fine estate»
è uscita il 31 agosto)

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