Chi ha rubato il paesaggio? I "paesaggisti"

Addio monti e marine. Per gli artisti sono soltanto una proiezione delle nostre angosce. Gli idilli campestri dell'800 lasciano il posto al "ritratto di città". E la natura diventa luogo di ansia e tensione

E pensare che il Novecento si era aperto con una dichiarazione di guerra contro il paesaggio. Boccioni e i futuristi non ne potevano più di tramonti sul lago e di albe negli alpeggi e proclamavano: «Finiamola con i Laghettisti, coi Montagnisti!». Il paesaggio, insomma, sembrava un genere irrimediabilmente vecchio, ottocentesco. Nasce infatti sullo scorcio del nuovo secolo il «paesaggio urbano», che ha come soggetto la città. Pochi anni dopo, però, gli artisti tornano a dipingere i temi naturali. Già, ma come li interpretano?

Facciamo un passo indietro. Il paesaggio, nella tradizione pittorica occidentale, è prevalentemente legato a una nozione di quiete. L’interesse per la furia della natura e lo scatenarsi degli elementi (preceduto da La tempesta del Giorgione, dove comunque si vede solo un lampo) si sviluppa col romanticismo e rimane minoritario nelle scelte iconografiche. Nell’arte del ’900, invece, la natura diventa luogo d’ansia e tensione: dai paesaggi inquieti di De Pisis a quelli agitati di Osvaldo Licini. Anche se non mancano naturalmente le eccezioni. Da dove nasce questa nuova prospettiva, che nell’800 non c’era (se non in certi esiti soprattutto tardo-romantici, impostati sulla lotta per la sopravvivenza o sull’eroismo dell’uomo che si scontra con gli elementi)? Deriva forse da una sensibilità, per così dire, ambientalista? Senza nulla togliere alla doverosa preoccupazione per quello che una volta si chiamava «il creato», le cose non sono così semplici.

Prendiamo, per esempio, un’artista come Letizia Fornasieri, considerata uno dei maggiori pittori realisti della sua generazione, e i cui quadri esposti a Mantova sono emblematici di uno stato d’animo oggi diffuso. Tra i suoi dipinti troviamo paesaggi urbani ingombri di traffico, dove anche il cielo non ha più un centimetro libero, tanto è percorso da fili della luce, cavi elettrici, segnaletiche invasive. Poi, però, il suo sguardo si sposta su un frutteto, su una serra, su una betulla e ci aspetteremmo che si rasserenasse di fronte allo spettacolo della natura. Non è così. I fiori, è vero, sono bellissimi, e sono belle anche le piante di limoni o le distese di neve. Ma quel senso di disagio doloroso che sentivamo davanti ai paesaggi urbani non muta. Il fatto è che la fatica e il dolore fanno parte della vita. E l’artista ce lo ricorda, con discrezione, senza farci sognare inesistenti paradisi terrestri. Il paesaggio, allora, diventa una meditazione esistenziale. Ed esprime il nostro disagio, sia pure aprendosi a un’intensa speranza metafisica.

Se confrontiamo le vedute di Letizia Fornasieri con quelle ottocentesche o degli inizi del Novecento (e ce ne offrono l’occasione le due ottime rassegne di Barletta e di Monza, incentrate su questo tema, oltre alla Sala dei Paesaggi recentemente riaperta alla Pinacoteca di Brera) la differenza è evidente. Campi, marine, fresche e dolci acque di De Nittis o di Mariani appaiono immersi in un’altra pace. Possono tingersi di malinconia, di nostalgia, ma restano fondamentalmente più sereni di quelli del secolo successivo.
Per quale motivo? Forse perché la natura, allora, era meno aggredita e in pericolo di quanto non sia oggi? Non vorremmo passare per insensibili, ma temiamo che la risposta sia diversa.

Se nell’Ottocento la natura era ancora «l’altro da sé», come dicevano i filosofi, oggi il paesaggio è un’immagine dell’io. E i problemi dell’io, cioè i nostri, sono profondi, complessi, spesso inguaribili. E purtroppo non c’è intervento esterno che possa sanarli.

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