Cina, la campagna contro la stampa: esame di comunismo per giornalisti

Regime contro la proliferazione di tv e giornali commerciali: dimostrare la conoscenza delle ideologie di partito per esercitare la professione

Cina, la campagna contro la stampa: 
esame di comunismo per giornalisti

Pechino - E' la stampa bellezza! Sessant’anni dopo il film «L’ultima minaccia» con Humphrey Bogart nei panni del giornalista Ed Hutchinson anche i comunisti cinesi incominciano a capirlo. Non che non avessero ricevuto spiegazioni. Il vecchio capo Mao Tze Dong lo ripeteva sempre. «Il successo del comunismo riposa nella canna del fucile e nella punta della penna». I nuovi signori di Pechino - distratti dopo la sua morte da investimenti e rendite miliardarie - avevano scordato l’aurea regola annotata nel Libretto Rosso. E così la proliferazione di tv e giornali ha offerto a inviati e giornalisti la possibilità di approfittarne. Ma quando è troppo è troppo. Trentatre anni dopo la scomparsa del «gran timoniere» la Cina corre ai ripari e annuncia una severa campagna di rieducazione per imbrigliare le penne in libertà. D’ora in poi chiunque occupi un posto di responsabilità in un giornale o in una televisione dovrà tornare a studiare le sane vecchie regole annotate nel codicillo di Mao. E potrà continuare a svolgere la professione solo se riuscirà a superare un esame in cui dimostrerà di conoscere le fondamenta del comunismo e di esser pronto a servirlo.

Ad annunciare la resa dei conti con una categoria di cronisti illusisi di poter servire la verità dei fatti anziché quella di partito è la signora Li Dongdong, numero due dell’Amministrazione generale della stampa e della pubblicazioni. «I compagni che desiderano lavorare sul fronte dell’informazione giornalistica devono conoscere molto bene la versione cinese del socialismo e tener sempre presente la visione di Mao sull’informazione, l’etica del giornalismo e la disciplina prevista dal partito comunista per l’informazione e i media», spiega la funzionaria in una serie di dichiarazioni pubblicate dal South China Morning Post e dall’agenzia di Stato Nuova Cina.

Le preoccupazioni dei comunisti cinesi non sono, dal loro punto di vista, del tutto infondate. Da quando la pubblicità ha incominciato a gonfiare i bilanci di giornali e televisioni e a renderli indipendenti dai finanziamenti e dai controlli di partito, i giornali cinesi si sono convinti di poter fare il bello e brutto tempo. E l’immagine del sistema ha incominciato a vacillare. Per capirlo basta scorrere le cronache degli ultimi anni. Uno dei primi a infrangere le sacre regole della discrezione di regime è Li Changqing, un inviato del Fuzhou Daily colpevole - nel 2004 - di aver descritto una pericolosa epidemia di dengue alla vigilia di un’importante fiera internazionale nella sua città e di aver denunciato - grazie alle rivelazioni di un funzionario di partito - la rete di corruzione gestita dalle autorità comuniste della provincia di Lianjiang. Quella non richiesta passione per la verità costa a Li Changqing tre anni di carcere inframmezzati da un corollario di torture.

L’esemplare punizione non basta a rimettere in riga l’odiosa e incontrollabile categoria. Seguendo l’esempio di Changqing decine di altri cronisti fuori controllo si sono esibiti negli ultimi anni in una serie di rivelazioni che hanno fatto schiumare di rabbia i vecchi gerarchi del comunismo cinese. Gli esempi non mancano. Dopo il disastroso terremoto del maggio 2008 nella provincia del Sichuan, il giornalista Tan Zoruen denuncia la tragedia di migliaia di bambini sepolti sotto le macerie di scuole costruite senza tenere conto del rischio sismico. I cinque anni di galera comminati all’indiscreto cronista da un tribunale del popolo non bastano nei mesi successivi ad arginare le dettagliate e scandalose cronache sull’avvelenamento di oltre 50mila bimbi vittime del latte alla melamina. Per metterci una pezza le autorità non esitano a mandare al patibolo due dirigenti responsabili dello scandalo, ma la punizione non basta ad arginare il malcontento della popolazione che in alcune zone si trasforma in proteste di piazza e rivolte locali. Così le autorità hanno ora deciso di risolvere il problema alla vecchia maniera. Dopo aver favorito gli investimenti che hanno portato allo sviluppo, alla diffusione e alla crescita di televisioni e giornali i gerarchi di Pechino cercano d’ arginarne l’attività imponendo i dogmi dell’antica ideologia.

La nuova parola d’ordine per i circa 230mila redattori e inviati di circa 2.000 quotidiani e 10mila riviste disseminate sul territorio cinese torna a essere la vecchia regola secondo cui «il giornalista deve servire il partito e non contestarne i principi».

Peccato che il partito sia, ormai, una gigantesca società per azioni alla testa di un sistema economico fuori controllo. E chi paga per un giornale non s’accontenta più delle vecchie favole del Grande Timoniere. «È il mercato bellezza e tu non puoi farci niente, niente».

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