La Cina e le paure dell’Occidente

«I diritti umani? Non siamo sordi ma dobbiamo procedere gradualmente. La democrazia cresce in base alle condizioni di ogni Paese»

A Pechino Wu Janmin conta. È rettore dell’Università degli Affari Esteri, presidente della Commissione Affari Esteri della Conferenza Consultiva ed è stato un diplomatico di rango, che ha rappresentato il suo Paese in Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, in Belgio, all’Onu di Ginevra. Considerando che la Cina resta una dittatura, formalmente ancora comunista, il suo è un ruolo non facile. Ma l’ambasciatore Wu Janmin è un interlocutore brillante, che conosce bene, oltre alla realtà cinese, anche quella occidentale. Lo abbiamo incontrato all’aeroporto di Malpensa, prima della sua partenza in auto per Alessandria, dove oggi e domani parteciperà al seminario «Per una nuova architettura politica mondiale» del World Political Forum.
Negli ultimi trent’anni la Cina veniva considerata una superpotenza dormiente. Ora, grazie al boom economico, si sta risvegliando. Dobbiamo iniziare a temerla?
«No. Ogni Paese è modellato dalla propria storia e noi ne abbiamo una antichissima, di cinquemila anni. Negli ultimi duemila siamo stati a lungo una potenza ma non siamo mai stati espansionisti e il nostro territorio non è aumentato. Anzi, in epoca moderna la Russia ce ne ha sottratto. Ma la lezione del passato non è stata dimenticata: il dominio di altri Paesi è estraneo alla nostra cultura».
Eppure altri Paesi asiatici sono inquieti e vi vedono come una potenza regionale. Come lo spiega?
«Da un punto di vista economico nessuno si lamenta. Anzi, tutta l’area ha beneficiato della nostra crescita. Politicamente solo il Giappone è allarmato; ma negli ultimi due secoli sono stati loro ad attaccarci. E oggi non sopportano l’idea che cresciamo più di loro. Ma anche con Tokyo abbiamo sviluppato una stretta interdipendenza economica. I loro investimenti da noi sono enormi. A entrambi interessa la stabilità e dunque la pace».
Il governo Usa, però, ritiene che nel lungo periodo la Cina possa coltivare ambizioni egemoni e spodestare la leadership americana...
«Si sbagliano. Anche con gli Usa gli interessi economici sono colossali e reciproci. Purtroppo però noto che molti continuano a ragionare con mentalità da guerra fredda. La Cina non è l’Unione Sovietica, ha abbracciato il capitalismo e ha ancora grandi problemi interni: l’ultima cosa a cui pensa è di diventare la prima superpotenza. La storia ha dimostrato che tutti i Paesi che hanno cercato di ottenere l’egemonia, hanno fallito. E questa lezione è radicata nella nostra coscienza. Come disse Deng Xiao Ping all’Onu: “La Cina non cercherà l’egemonia. E se un giorno cambierà politica invito i cinesi e tutti i popoli del mondo a ribellarsi”».
Però è difficile ribellarsi in un Paese che non rispetta i diritti umani e in cui non c’è libertà. Perché restate sordi a tutti gli appelli riformisti?
«Non siamo sordi, ma dobbiamo procedere gradualmente. Nel 1949 la gente fece la rivoluzione perché 400, 500 milioni di cinesi erano alla fame. Oggi siamo 1,3 miliardi e nessuno ha fame. Nel ’49 l’aspettativa di vita media era di 35 anni, oggi è di 72. C’è un progresso. I diritti umani e la democrazia devono evolvere alla velocità consentita dalle condizioni di ogni Paese. La Francia ha fatto la rivoluzione nel 1789, ma ha concesso il voto alle donne solo nel 1945. Se noi oggi optassimo per la piena libertà, il Paese diventerebbe ingovernabile e precipiterebbe nella guerra civile. Gli europei hanno imposto la democrazia in molti Paesi africani ed è stato un disastro. Non vogliamo ripetere gli stessi errori».
Tuttavia la negazione assoluta della libertà di stampa è difficilmente spiegabile. Perché reprimete anche forme minime di critica e dissenso?
«Oggi in Cina vengono pubblicati molti giornali e riviste. Leggendoli vi accorgerete che non c’è pensiero unico e che le opinioni sono diverse. Non è piena libertà, d’accordo; ma rispetto al passato recente c’è stato un grande progresso. Bisogna vedere tutto in prospettiva. E considerare che stiamo passando dalla società agricola a quella industriale in 30 anni, mentre da voi questo processo è avvenuto in due secoli. È un grande cambiamento e voi occidentali dovreste essere più comprensivi».
Già, ma per quanto?
«Bisogna considerare tre elementi: sviluppo, stabilità, riforme. Lo sviluppo è l’obiettivo. La Cina deve affrontare problemi giganteschi e per farlo ha bisogno di stabilità. La democrazia ha un prezzo e per funzionare richiede educazione.

Oggi il 65 per cento dei cinesi sono contadini incolti, molti dei quali analfabeti. L’obiettivo prioritario è alzare il livello medio d’istruzione. Solo dopo passeremo alle riforme e dunque alla democrazia».
marcello.foa@ilgiornale.it

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