Tutto è cominciato nel 1980 e lui ricorda ancora il giorno: «Era l'8 febbraio. Citofonai alla sede di Amnesty, che nel 1977 aveva vinto il Nobel per la Pace. A Roma c'era un brutto clima, di violenza, lotta armata, terrorismo. Io cercavo una strada opposta per cambiare le cose. Se non mi avessero aperto la porta...». Invece la aprirono. «E da allora non ho fatto altro». Oltre quarant'anni di impegno sul fronte dei diritti umani, più di venti nel ruolo di portavoce di Amnesty International Italia, alle spalle una laurea in Scienze Politiche alla Sapienza con tesi sul genocidio dei curdi iracheni sotto Saddam, Riccardo Noury, 60 anni, è l'uomo che parla ogni volta che si consuma un abuso nel mondo, che la dignità, l'integrità, la libertà e i diritti fondamentali di una persona sono repressi, violati, minacciati. Dalla Russia al Messico, dalla Cina all'Egitto.
Come iniziò ad Amnesty?
«Come volontario. Avevo una Olivetti Lettera 32 e, secondo loro, sapevo scrivere bene. Iniziai a dare una mano all'ufficio stampa. Nell'85 sono diventato addetto stampa e nel '93 portavoce della sezione italiana di Amnesty International».
Quanto conta saper raccontare una storia di diritti violati all'opinione pubblica?
«Le storie sono più importanti di qualsiasi numero. Ma invece che essere ricordati come l'organizzazione che racconta quanto fa schifo il mondo, noi dobbiamo essere i più bravi a provare a cambiarlo. La candela che brilla tra il filo spinato è il simbolo di Amnesty e il messaggio è chiaro: nell'oppressione c'è sempre una fiammella di speranza accesa».
Quali sono le zone più «calde» oggi?
«Direi Iran e Afghanistan».
Non l'Ucraina? La guerra?
«La guerra è sopra ogni cosa».
Quali i tre casi emblematici?
«Il primo è il giornalista e attivista russo Vladimir Kara Murza. La sua condanna a 25 anni richiama le punizioni staliniane».
Secondo caso?
«Lo svedese Ahmadreza Djalali, condannato a morte in Iran dal 2016. È uno scienziato di fama mondiale, esperto di disastri, che ha fatto ricerca in Italia, all'Università del Piemonte orientale. Lo hanno attirato per chiedergli di fare la spia per l'Iran e contro Israele. Lui ha rifiutato e gli hanno affibbiato l'accusa opposta: essere una spia di Israele. È nel braccio della morte da 7 anni. Poi c'è Patrick Zaki».
Anche Zaki ha un legame con l'Italia, per gli studi a Bologna.
«Un caso emblematico. Zaki è sotto processo per il reato di diffusione di notizie false. Esattamente per aver scritto il vero».
L'impressione è che i diritti umani siano regrediti. È così?
«Dipende dalla lente temporale con cui guardiamo questi fenomeni. Se pensiamo agli ultimi tre anni non c'è dubbio che abbiano fatto passi indietro. Non solo per la guerra. La pandemia, con le sue conseguenze sul diritto alla salute violato regolarmente, ha falcidiato interi gruppi. Penso agli anziani e alle fasce più deboli. Poi c'è il cambiamento climatico, che produce conseguenze devastanti per chi ha meno tutele, con un impatto potenziale su miliardi di persone. Infine la repressione del dissenso: Russia, Iran, Afghanistan. Se guardiamo a questi Paesi c'è da mettersi le mani nei capelli».
Un bilancio catastrofico?
«Ma io ho la fortuna di avere una lente di osservazione di almeno quattro decenni. Rispetto a 40-50 anni fa sono stati fatti passi avanti».
Quali progressi?
«Lo sviluppo del diritto internazionale, inteso come norme che vincolano gli Stati al rispetto dei diritti fondamentali. Nel 1984, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura è stata uno spartiacque. Impone di introdurre il reato di tortura e di punirlo in modo adeguato».
Secondo sviluppo?
«La giustizia internazionale. Sono passati 25 anni dallo Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale (Cpi), la stessa che ha emesso il mandato di cattura contro Vladimir Putin. Se Putin viaggia oggi in uno dei 123 Stati che hanno l'obbligo di arrestarlo, perché aderenti, e una di queste nazioni lo fa, le cose cambieranno».
Altri traguardi?
«La consapevolezza sul tema dei diritti, con la nascita di centinaia di organizzazioni sul modello di Amnesty. E lo sviluppo tecnologico: la telefonia mobile, l'avvento di Internet e dei social, tutte novità che consentono tempestività di mobilitazione e rendono impossibile ai governi nascondere ciò che fanno. Il mondo prima o poi verrà a sapere».
Quali sono i luoghi più pericolosi al mondo?
«L'America latina. Soprattutto la Colombia per chi difende i diritti umani e il Messico per i giornalisti. Ma penso anche all'Arabia Saudita. Immaginate cosa significa essere condannate a 45 anni per un tweet».
I posti più pericolosi per un cittadino straniero?
«In tema di criminalità comune penso ad America latina e Messico. Per il resto c'è l'Iran, che prende in ostaggio cittadini Ue per ottenere scambi. Se va in Iran, un europeo può diventare ostaggio solo per il suo passaporto».
La Russia di Putin, la Turchia di Erdogan. Le dittature avanzano?
«Non esistono quasi più nella forma classica, di un uomo solo al comando. Si affermano invece, sempre più, forme ibride di regimi autoritari che salvaguardano anche caratteristiche della democrazia, prevedono elezioni multipartitiche, ma governano in modo estremamente autoritario. La Turchia è uno di questi. E l'Egitto, dove la situazione è costantemente peggiorata».
Se dico Ucraina, quali sono le urgenze?
«Punire i crimini di guerra russi. Dal primo giorno hanno colpito parchi giochi, centri abitati, scuole e ospedali. Poi serve fermare e punire il trasferimento forzato dei civili e le adozioni illegali di bambini ucraini».
Se dico Russia, cosa la preoccupa di più?
«L'azzeramento del dissenso. Kara Murza o Alexey Navalny sono nomi noti. Ma dietro si nascondono centinaia di altri casi».
Se dico Iran?
«Penso a una teocrazia profondamente autoritaria che si regge su centinaia di impiccagioni ogni anno e sul reato omnibus: guerra contro dio. Siamo lontani da qualunque forma di sistema a noi conosciuto. Dal gennaio '22 ci sono state circa 900 impiccagioni e si prevede un numero sempre più alto di morti fra i manifestanti».
Cina?
«La grande impunita. È un Paese a cui ci si rivolge con enorme deferenza, riesce a condizionare i voti degli Stati negli organismi che si occupano di diritti umani. E ha l'enorme responsabilità di aver trasformato Hong Kong in un deserto dei diritti umani».
Quanto pesano economia e relazioni diplomatiche?
«Tantissimo. L'economia ha sempre prevalso. Ma in tempi eccezionali, l'obiettivo dell'Occidente di diversificare le fonti di energia ha spinto a rivolgersi a Paesi come Algeria, Egitto, Azerbaijan, Arabia saudita. I diritti umani sembra non interessino più a nessuno. Prima si chiudeva un occhio, ora due».
Quali le questioni più urgenti?
«L'arretramento nella tutela dei diritti di alcuni gruppi vulnerabili: rifugiati, donne e comunità Lgbt+. L'Uganda prevede la pena di morte per atti sessuali tra persone dello stesso sesso. E le frontiere, aperte generosamente per gli ucraini, sono rimaste impermeabili per chi arriva da Irak, Siria e Afghanistan. Un'accoglienza dignitosa è possibile, ma è un'eccezione».
Manifestare è sempre più rischioso?
«Nel 2022 le proteste pacifiche di massa in 87 Paesi sono state represse con un uso eccessivo della forza in almeno tre quarti dei casi. Il caso emblematico è il Perù, ma ci metterei anche la Francia. Durante le proteste dei gilet gialli e contro la riforma delle pensioni, le forze dell'ordine hanno agito con pestaggi, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate esplosive. Poi c'è un evidente problema di razzismo tra gli agenti e, senza una riforma profonda, la divisione nella società francese e la violenza raggiungeranno livelli ancora più gravi».
Anche Internet e social sono diventati armi di repressione.
«La mobilitazione in Rete ha spinto i governi a dirottare sempre più risorse per la repressione del web. Controllano ciò che viene pubblicato, introducono legislazioni sempre più dure. Poi c'è lo sviluppo degli spyware, software che infettano computer e cellulari, raccogliendo informazioni e dati. Penso all'azienda israeliana Nso Group».
Che però agisce nella legalità...
«Sì, non c'è una norma che vieti tutto questo. Loro parlano di sistemi per contrastare criminalità organizzata e terrorismo. Ma non c'è controllo sugli acquirenti. Almeno 19 Stati hanno acquistato quel sistema per la sorveglianza di massa e per intercettare dissidenti politici e difensori dei diritti umani».
Come evitare questi rischi?
«Chiediamo una normativa che disciplini l'uso e l'esportazione dei software-spia».
I media come se la passano?
«Ci sono sempre più arresti di giornalisti per aver denunciato corruzione e comportamenti abusivi, aver messo il naso nel potere. Non dimentichiamo Jamal Khashoggi. Sono passati 5 anni da quando lo hanno fatto a pezzi nel consolato di Istanbul. Era un commentatore del Washington Post. Vuol dire che non c'è più alcun limite».
Quali sono i Paesi più solerti nella difesa dei diritti umani?
«Non ci sono sistemi che offrono garanzie. Ma Germania e Francia, sulla lotta all'impunità, stanno dando un esempio. Applicano il principio di giurisdizione universale. Per crimini non commessi nel Paese che svolge i processi, i cui sospetti responsabili e le vittime non sono cittadini del Paese che svolge i processi».
È già successo.
«Con alcuni funzionari di Stato siriani, colpevoli di tortura, con membri dell'Isis per il genocidio degli yazidi».
Che succede nel mondo libero?
«Anche nelle nostre democrazie c'è un arretramento dei diritti. Penso alle donne, una situazione che fa spavento. C'è l'inefficacia del contrasto alla violenza, la disparità di trattamento, ma soprattutto un arretramento nella sfera dei diritti sessuali e riproduttivi, dalla Polonia agli Stati Uniti. In Usa, sull'aborto, hanno annullato 50 anni di garanzie federali».
Parla spesso con le vittime o con i loro parenti?
«Ho contatti diretti con Zaki, i familiari dei condannati, i difensori dei diritti umani. Sento anche le figlie di Abdulhadi al-Khawaja, all'ergastolo dal 2012 in Bahrein».
Una storia che le ha tolto il sonno?
«Quella dello scienziato Djalali, che rischia la morte in Iran. Conosco la moglie, i figli che vivono in Svezia, ma hanno studiato in Italia per tre anni quando il padre era ricercatore a Novara. Sentirli parlare in perfetto italiano del papà, che non vedono da sette anni, mi spezza il cuore».
Ha mai pianto per qualche caso?
«Sì, anche di gioia. Per due storie legate entrambe alla pena di morte. L'impiccagione, in Iran, della pittrice Delara Darabi. E la gioia per aver salvato dalla lapidazione, in Nigeria, due adultere: Safiya e Amina».
Il suo impegno come la fa sentire? Un eroe? Un giustiziere?
«Una persona molto indignata. Con tutta l'empatia che si possa avere, è inimmaginabile cosa stanno soffrendo queste persone. Sono situazioni inconsolabili. Ma la possibilità di identificarsi, mi rende ancora più attivo. Essere solidali non basta. Io voglio tirarli fuori di prigione».
Se dovesse chiedere un intervento al governo italiano?
«Chiederei una politica estera basata sulla pretesa che i diritti siano rispettati. L'Italia ha relazioni eccellenti con tanti Paesi. Non mettiamo i diritti umani al secondo posto».
Cosa può fare il cittadino di un Paese libero per dare un contributo?
«Primo: informarsi. Secondo: scegliere un'organizzazione della quale far parte. Terzo, sul piano più etico: dobbiamo pensare che abbiamo una libertà che non c'è in decine di altri Stati. E metterla al servizio di qualcos'altro. In molti Paesi la nostra conversazione sarebbe stata intercettata».
Che ci sarebbe successo?
«Lei e io avremmo avuto la
visita di qualche funzionario, per rendere conto di cosa ci siamo detti. Lei sarebbe stata arrestata e io sarei in carcere per le cose che ho detto. Tutto questa libertà dobbiamo usarla. Non solo essere contenti di averla».
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