La Cina lancia il primo siluro: «Inquineremo per trent’anni»

PRETATTICA In realtà Pechino potrebbe puntare a raccogliere finanziamenti internazionali per ridurre le sue emissioni

Se il buongiorno si vede dal mattino questo è un inizio plumbeo come una cappa di cenere, grigio come una nube di smog, tetro come una centrale a carbone.
Un salto nella nebbia che neppure l’augurio del primo ministro danese Lars Loekke Rasmussen, pronto a scommettere su “accordi forti e ambiziosi”, riesce a illuminare. A deprimere le speranze dei delegati di 192 Paesi ammassati al Bella Center di Copenaghen per l’inaugurazione del summit sui cambiamenti climatici ci pensa anche stavolta Pechino, l’indiscusso campione dell’inquinamento globale. Il siluro capace di trasformare in fiera delle vanità i dodici giorni di vertice lo lancia il ministro cinese della Scienza e tecnologia Wan Gang annunciando l’intenzione di continuare ad aumentare le emissioni inquinanti per almeno 21 anni. E all’ottimismo non contribuisce neppure Barack Obama. Dopo aver annunciato di non volersi far vedere a Copenaghen prima del 18 dicembre ha deciso di cercar consiglio da Al Gore e ha convocato alla Casa Bianca il compagno di partito campione delle crociate ambientaliste.
Ma il problema di questa prima giornata resta una Cina decisa a non farsi imporre nessuno di quegli obbiettivi per la riduzione delle emissioni, richiesti ai paesi industrializzati. A dar retta a Wan Gang, intervistato dal quotidiano inglese The Guardian, il picco dell’inquinamento “made in China” continuerà a salire almeno fino al decennio tra il 2030 e il 2040. Solo in seguito si potrà sperare in un miglioramento. Se non vi sembra grave mettetevi nei panni degli organizzatori di Copenaghen convinti di poter imporre un limite alle nazioni più inquinanti e contenere un surriscaldamento del pianeta superiore a due gradi. E Wan Gang come risponde? Con la promessa di far peggio per 21 anni nella più brillante delle ipotesi e per 31 in quella più nera. «Quell’intervallo fa ritenere che ben difficilmente la Cina offrirà un contributo reale al tentativo di contenere sotto i due gradi la crescita della temperatura globale, quell’obbiettivo sarebbe compatibile soltanto con un picco delle emissioni fissato fra il 2020 e il 2030», spiega senza giri di parole Jim Watson, esperto di cambiamenti climatici all’Università del Sussex.
Se i primi a sottrarsi all’appello di Copenaghen sono i leader della nazione più inquinante del pianeta tutto diventa più difficile. E anche gli obbiettivi minimi del summit rischiano di risultare irraggiungibili. Il siluro di Wan Gang potrebbe, però, essere anche sapiente e interessata pretattica. La Cina potrebbe sparare alto per poi chiedere alle nazioni più ricche del pianeta quanto siano disposte a pagare un suo eventuale impegno. La mercantile prospettiva s’insinua tra le righe dell’intervista quando il ministro ammette di puntare ai contributi internazionali per contenere le emissioni di anidride carbonica. «Bisogna – abbozza Wan Gang - stabilire un quadro di riferimento per il trasferimento di risorse e tecnologia piuttosto che bloccarsi sulle cifre».
E visto che il trasferimento di tecnologia e finanziamenti dalle nazioni ricche a quelle povere è all’ordine del giorno del summit, qualcuno sospetta che Pechino stia allungando un piattino mezzo vuoto nella consapevolezza di riportarlo a casa stracolmo di contributi.

Se invece andrà male, potrà ribaltare tutte le colpe sulle nazioni industrializzate e continuare a sfruttare il carbone per oltre il 70 per cento dell’energia consumata. Quanto alle energie pulite e alternative, tanto care alle anime belle occidentali, a Pechino non c’è fretta. Nella Cina di oggi non superano l’8-9 per cento del consumo e non arriveranno al 15 per cento prima del 2020.

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