Alla Cina non basterà l’economia di Stato per superare la crisi

La passione per la Cina e le cineserie hanno contagiato più volte l’Occidente: nel Settecento quando si costruivano i padiglioni in stile cinese. E s’ammiravaanche la burocrazia di quel Paese. Follemente, poiché già allora essa era una causa di potente decadenza di quella nazione. Per non dire degli anni Settanta del secolo trascorso e della collera e della follia che invasero gli studenti dell’Occidente e li fecero infatuare per le mistiche liberticide del libretto rosso. Ma il vizio ora ritorna. E s’infila nelle lodi che in troppi hanno dedicato agli interventi del governo comunista per far fronte alla crisi. Quasi a dire che in fondo la strage di Tienanmen, per quanto esecrabile, è servita al bene di tutti, e che il dispotismo cinese anzi ancora ci aiuta.
Ma quanto questa lode si giustifica con i dati economici? E quanto i rimedi statalisti, ovvero le enormi misure anticrisi pari al 12% del Pil, funzionano? Rispondere a queste domande servirebbe non solo a evitare i soliti zeli in eccesso verso la Cina. Potrebbe essere forse anche la maniera per capire meglio se davvero gli eccessi del mercato possono essere curati da un eccesso di Stato. Una cura di cui molto dubiterei.
Il governo cinese mira anzitutto a un tasso di crescita del Pil dell’8% per quest’anno. E in effetti, per quanto la crescita reale cinese si sia dimezzata rispetto al 2007, si è ritrovato al 6,1% dopo il primo trimestre 2009, sempre su base annua. Un numero che parrebbe giustificare dunque l’ottimismo dei successori della dinastia di Mao. E se ne potrebbe dedurre pure che i mesi peggiori sono passati e il pacchetto di stimoli statali per 586 miliardi di dollari funziona. Tuttavia, se poi si considera il dato a prezzi correnti, la situazione risulta meno confortante. La crescita nominale si ridurrebbe infatti, sempre al primo trimestre, addirittura al 3,6% secondo alcune stime dell’autorevole AEI. La deflazione si sarebbe portata via un 2,5 per cento di crescita. E il crollo cinese prenderebbe altri contorni. La crescita nominale ne risulterebbe infatti ridotta a meno di un quinto di quella del 2007. Non siamo certo ai tassi negativi europei, ma il quadro appare più cupo anche in Cina. E anche gli umori più recenti della stampa internazionale sono del resto oggi prudenti in una misura maggiore di solo qualche mese fa.
E come poteva essere altrimenti? Gli investimenti del primo trimestre 2009 per effetto della spesa statale sono cresciuti sì su base annua addirittura del 28,6%, mentre negli Stati Uniti calavano. Tuttavia hanno dovuto controbilanciare un crollo di quasi un 20% delle esportazioni nello stesso periodo. In conclusione la ripresa della Cina non può sostenersi da sola, richiede quella del commercio internazionale e dei consumi in America. Altrimenti il dispotismo cinese eleverà soltanto il suo eccesso di capacità produttiva. E anche i corsi così brillanti della borsa di Shanghai, sono appesi alla ripresa degli Stati Uniti. Lo spendi e spandi in investimenti della dinastia di Mao non risolve quindi di per sé la crisi cinese. E non soltanto: se poi il governo di Pechino in attesa della ripresa degli Stati Uniti s’innervosisse, e insistesse a fare da solo, le cose potrebbero pure complicarsi.

Se per catturare più esportazioni la Cina mollasse poi il suo cambio, allora l’Asia tutta inizierebbe a esportare deflazione. Insomma la morale è ovvia: il dispotismo cinese è più rapido di qualunque democrazia a spendere. Ma il suo statalismo da solo rischia, e non basta a risolvere la crisi.
Geminello Alvi

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