Back to Black, il biopic su Amy Winehouse, geniale cantautrice scomparsa nel 2011, è destinato a suscitare emozioni diverse a seconda del rapporto pregresso tra lo spettatore e la figura cui il film è dedicato. Sam Taylor-Johnson, già regista di "Nowhere Boy" e di "Cinquanta sfumature di grigio", non va infatti oltre una corretta orchestrazione dei cliché di questo tipo di pellicole, firmando una ricostruzione temporale pulita e con attori all’altezza dell’esercizio di mimetismo richiesto. Questo significa che “Back to Black” non è incisivo di per sé, anzi, ma è in grado di regalare suggestioni che in alcuni desteranno tiepido coinvolgimento, in altri fastidio, in altri ancora sincera commozione. Di sicuro l’impatto emotivo dell’intera operazione sta nel riascoltare brani leggendari e nell’autoinganno andato a buon fine di rivedere nell’attrice protagonista, in alcune inquadrature parziali, l’Amy che fu.
A livello narrativo si ripercorre la vita breve e triste di una ragazza dotata di immenso talento e di vero amore per una musica degna di questo nome. Amy ci è presentata come una stella nascente restia a uniformarsi al panorama pop del tempo, in cui il “girl power” è declinato alla “Spice Girls”. Indifferente a fama e denaro, la giovane cantautrice è sempre, nel bene e nel male, fedele alla propria natura; ha quindi uno stile inimitabile e come unica volontà quella di essere se stessa e di regalare, a chi ascolta una sua canzone, cinque minuti di sollievo dalla sofferenza. Un concetto, quest’ultimo, sottolineato sia in apertura che in chiusura del film.
La vicinanza tra musica e vita è centrale: Amy scrive di ciò che vive e per esorcizzare il dolore. Come quasi tutte le persone che hanno ricevuto per nascita qualche dono eccezionale, la ragazza ha anche debolezze e fragilità della medesima portata ma cui il film non rende giustizia. I disturbi alimentari sono solo accennati; quanto all’alcol le si mette sempre un bicchiere in mano, tutto qua. Si intuisce che la sua dipendenza sia di tutti i tipi, da quella per le sigarette a quella affettiva, ma nulla più di quanto visibile dall’esterno già all’epoca. Oltre alla relazione fondamentale di Amy (Marisa Abela) con il tossico Blake (Jack O'Connell), sono restituite quelle che ebbe con l’affettuosa nonna (Lesley Manville) e col padre (Eddie Marsan), simil-manager più che genitore.
“Black to Black” va a segno solo quando i brani firmati da Amy si prendono la scena. A parte qualche sussulto poetico come la vista del “Birdland” di New York o la presenza di perle musicali più datate come “Embraeceble you”, si assiste a una storia d’amore che sembra la versione cinetica di un fotoromanzo (si ricreano molte foto rubate di allora).
Se lo spettatore riuscisse a silenziare la sua specifica sensibilità nei confronti del mito musicale ritratto, si accorgerebbe di essere in un film blandamente celebrativo, in cui la tragicità è edulcorata e resa in maniera bidimensionale, semplicemente (ancora una volta) paparazzata.
Marisa Abela ha il ruolo ingrato di prestare voce e presenza a un’icona che era tale da viva, figurarsi da morta. Pettinatura rialzata, piercing al labbro, stessi tatuaggi, grande voce, movenze ricalcate alla perfezione: ottima imitazione, per quanto il carisma di un’anima graffiata sia impossibile da replicare.
Nulla a che vedere con l'allaccio emotivo del bellissimo "Amy" di Asif Kapadia e James Gay-Rees, vincitore del premio Oscar come miglior documentario nel 2016. Per chi però non voglia soffrire, “Back to Black” è della giusta misura: restituendo un album che arriva a livello viscerale, pieno di brani vitali e dai testi profondamente personali, si riassapora la magia di Amy senza commuoversi troppo.
Ritrovando la cantante solo superficialmente, ci si può abbandonare al desiderio di non lasciarla andare ed aver voglia perfino di rivedere un film tutto sommato modesto. Naturalmente la cosa migliore per renderle omaggio sarà sempre riascoltare “Back to Black”, anziché bramare questo tipo di palliativi.
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