“Empire of Light” di Sam Mendes, passo falso di un grande cineasta

Un film che vorrebbe essere in lode dei legami umani e della magia del cinema, ma che invece non riesce a elevarsi da un torpore malinconico e artificioso

“Empire of Light” di Sam Mendes, passo falso di un grande cineasta

Empire of Light“ di Sam Mendes, uscito ieri nelle sale, è una delusione. Pur avendo una superficie estetica splendida, la sceneggiatura si regge su una storia mai avvincente i cui eventi drammatici si legano in maniera un po’ fasulla. Una nota stonata nella melodiosa filmografia di Mendes ("American Beauty", "Era mio padre", "1917" solo per citare alcune opere), imputabile probabilmente al fatto che si tratta del primo film interamente sceneggiato dal regista.

Ambientato in una città di mare inglese nei primi anni '80, “Empire of Light“ ha per protagonista Hilary (Olivia Colman), la manager di un cinema che, esattamente come lei, ha visto giorni migliori. La donna, a seguito di un esaurimento nervoso, è sotto tranquillanti: le servono ad affrontare quella che considera una vita desolata e vuota. Al lavoro è molestata dal suo capo (Colin Firth) e l’unico appiglio alla sua salute mentale pare essere il nuovo arrivo, un giovane usciere nero di nome Stephen (Michael Ward). La tenera vicinanza con quest’ultimo è per Hilary un toccasana: i due si sostengono, divengono amanti e lei si scopre a sognare un futuro più roseo.

Il loro legame, nato fondamentalmente per arginare la reciproca solitudine, dovrà però vedersela con molte incognite tra cui il pericoloso razzismo della piccola città in cui vivono.

Bellissime le inquadrature degli interni della zona art déco del cinema, vuota e fatiscente ma ancora memore di un passato lussureggiante e sontuoso. Tra schermi lasciati in rovina si compie una piccola danza amorosa tra anime sperdute, l’una presa in ostaggio dalla depressione, l’altra dall'abuso razzista. L’universitario di colore, sensibile lettore di poesie, è un raggio di sole e di speranza nel quotidiano di una donna di mezza età in balia di demoni interiori e inaridita dalla vita, ma la vista della loro liason resta poco coinvolgente. Non è tanto la differenza d’età tra le due persone interessate a lasciare lo spettatore freddo, bensì il fatto che Mendes dipinga il love affair in un modo stranamente impersonale e distante.

Il talentuoso cast appare sprecato in un assemblaggio disordinato di personaggi bidimensionali.

Colin Firth nei panni di squallido approfittatore fa, come gli altri, l’inutile sforzo di elevare il materiale d’origine: una sceneggiatura scialba in cui si mischiano senza convinzione argomenti delicati come le molestie sessuali, il razzismo e la salute mentale.

La scrittura è goffa e l’intenzione narrativa incerta. “Empire of light” vorrebbe essere il commento socio-politico di un’epoca, mettere in scena un dramma (purtroppo poco brillante), infine trasmettere il potere catartico della sala cinematografica. Finisce invece col costituire il blando requiem di una magia in via d’estinzione.

Lo stesso intento di omaggiare il rito del

chiudersi in un buio illuminato dal grande schermo è stato meglio raggiunto da altri maestri in tempi recenti: Kenneth Branagh con “Belfast”, Steven Spielberg con “The Fabelmans” e Damien Chazelle con “Babylon”.

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