
E dire che i Pink Floyd manco lo volevano fare. «Inspiegabilmente nessuno di noi era interessato» conferma oggi Nick Mason che dei Pink Floyd è uno dei tre superstiti e resta l’unico a poterne parlare senza risentimenti personali. Eppure Pink Floyd: Live at Pompei (in Italia, Pink Floyd a Pompei) è il primo concerto della storia fatto senza pubblico in un luogo di strepitoso fascino, l’Anfiteatro Romano di Pompei.
Questo film documentario, registrato in gran parte nell’ottobre 1971, arriva nei cinema italiani e negli IMax dal 24 al 30 aprile in una sontuosa versione in 4K e Dolby Atmos con audio remixato da Steven Wilson che è significativa non solo per qualità digitale ma soprattutto per contrasto. Spieghiamoci. Oltre mezzo secolo dopo quel pomeriggio di ottobre a Pompei con i Pink Floyd sudatissimi in mezzo alla polvere, siamo nel tempo della iper produzione e gran parte dei brani oggi in classifica sfrutta, spesso abusandone, un imponente bagaglio tecnologico, qualcosa di impensabile fino a poco tempo fa per precisione, potenza e facilità di utilizzo. I Pink Floyd erano in quattro e basta, ma l’atmosfera e la pienezza del suono di quelle canzoni sono tali da essere tuttora quasi inarrivabili ai più. Dopotutto, alla base di ogni grande progetto c’è l’idea. Due anni dopo Woodstock, ossia il concerto dei concerti davanti a un pubblico, il simbolo della perfetta cerimonia rock, i Pink Floyd di Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason suonano da soli, senza applausi, senza cori, senza niente a parte le luci. Fu il successo di Adrian Maben, regista inglese che, dopo una vacanza a Pompei si innamorò dell’idea di far suonare la band nell’anfiteatro vuoto. Conosceva il professor Ugo Carputi dell’Università di Napoli e, grazie a lui, ottenne dalla soprintendenza che gli scavi fossero chiusi al pubblico per sei giorni in modo da garantire le riprese. La band aveva accettato a stento, molto a stento, soltanto a condizione di poter suonare con i propri strumenti e con la propria amplificazione. Risultato: la loro attrezzatura fu trasportata in Italia via camion. Una volta a Pompei, la produzione scoprì che negli scavi non c’era abbastanza elettricità per tutto l’impianto, così fu necessario «attaccarsi » direttamente al Municipio con un cavo lunghissimo che attraversava la cittadina. Insomma, vero artigianato. Il gruppo suonò pochi brani, tra i quali una strepitosa versione di One of these days, e il materiale fu integrato poi con altri pezzi registrati a dicembre nello studio Europasonor di Parigi.
Il film fu poi montato dal regista a casa propria perché i soldi del budget erano già finiti. Uscì nel 1972 ma poi, nell’agosto 1974, fu pubblicata un’altra versione più lunga con riprese effettuate agli Abbey Road Studios di Londra mentre i Pink Floyd registravano Dark side of the moon, un disco che tuttora, anche dal punto di vista sonora, resta pressoché irraggiungibile.
Live at Pompei,
che nella versione in arrivo nei cinema si intitola Pink Floyd at Pompei - MCMLXXII, è quindi il documento che testimonia il passaggio di questa band dalla psichedelia al rock. «Quell’arena, quell’anfiteatro crearono un momento che, persino senza pubblico, faceva l’effetto di un vero e proprio concerto ». «Potreste mai pensare a un concerto degli Who senza pubblico? No. Ma con i Pink Floyd in qualche modo funziona», dice il produttore Steven Wilson. Non a caso, il 2 maggio uscirà in cd, in digitale e, per la prima volta, in Dolby Atmos e in vinile l’intero concerto di Pompei.
«Perché siamo piaciuti così tanto ai fan? Forse perché eravamo diversi da ciò che andava di moda prima», chiude Nick Mason, 81 anni, uno degli ultimi batteristi che abbiano davvero cambiato il tempo della musica usando soltanto il proprio talento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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