A cinquant’anni la Dolce Vita non è ancora finita

Il cinema, talora, mostra la realtà anche a chi la nega. È il caso de La dolce vita, co-produzione italo-francese. Anteprima romana il 3, anteprima milanese il 5 febbraio 1960: qui insulti e sputi raggiungono Federico Fellini perché detrattore della borghesia. E dell’aristocrazia, sebbene tanti nobili partecipassero al film interpretando loro stessi. «Fellini comunista», si disse. Eppure nei felliniani Vitelloni, Alberto Sordi faceva il gesto dell’ombrello ai «lavoratori». Queste polemiche fondarono il mito della Dolce vita, di cui s’ipotizzò il sequestro preventivo per motivi d’ordine pubblico. Tre mesi dopo la baraonda di Milano, la palma d’oro di Cannes - attribuita dalla giuria di Georges Simenon ed Henry Miller - imponeva Fellini urbi et orbi; l’Oscar al suo costumista, Piero Gherardi, avrebbe fatto il resto.
Così La dolce vita fu l’evento dell’anno, insieme alla rivolta contro il governo Tambroni e alle Olimpiadi di Roma. Lo fu per Anita Ekberg nella fontana di Trevi e per Nadia Gray che fa lo spogliarello, ma anche perché - come Le Nozze di Figaro, la commedia di Beaumarchais che ispirerà il libretto di Lorenzo Da Ponte e la musica di Mozart - La dolce vita constatava la fine di un’epoca. Già il titolo evocava Talleyrand: «Ignora la dolcezza del vivere chi non ha conosciuto il mondo prima della Rivoluzione». In quella scia, Bernardo Bertolucci sceglierà di lì a poco, come titolo per il suo film d’esordio, Prima della Rivoluzione.
Francese d’origine italiana, storico del cinema, Michel Marmin nota: «La Dolce vita e Le Nozze di Figaro rappresentano un’élite corrotta e agonizzante, cui subentra il popolo (la cameriera, nel film di Fellini). Ma dieci anni dopo la “prima” delle Nozze, l’élite della Francia era decapitata; cinquant’anni dopo La dolce vita, in Italia non c’è stata rivoluzione». Critico cinematografico di Point de Vue, settimanale dell’alta società parigina, Adélaide de Clermont-Tonnerre precisa: «L’aristocrazia francese rise alla messa in scena della sua fine; la borghesia italiana no».
Nel mezzo secolo dalla Dolce vita va ricordato che uscì col divieto ai minori di 16 anni, poi di 14, che lo precludeva ai nati dopo il 1944; quindi la Rai-Tv lo trasmetteva solo di notte. Una rimozione più netta derivò dall’avvento del colore in tv. Dei tredici milioni d’italiani che andarono al cinema per vedere La dolce vita, molti sono morti. La suggestione vive, però. Perché? Jean Toschi Marazzani Visconti - cugina di Luchino, il rivale di Fellini - era all’anteprima milanese: «Fischi e insulti di quella sera - rammenta - fecero più notizia degli applausi. Nell’ipotesi del sequestro, già la mattina dopo, al Capitol, c’era la fila alla cassa. Fascino del proibito».
Presto l’evento cinematografico divenne politico. L’Osservatore Romano - epoca di Giovanni XXIII - titolò Schifosa vita un commento anonimo. Oscar Luigi Scalfaro non smentì d’averlo scritto. La velleità censoria servì alla fama di un regista che, con La strada, aveva già fatto vincere l'Oscar per il film non americano ai suoi produttori. Ancora poco per far dimenticare che Il bidone era andato male, come Luci del varietà.
La Dc non fu l’unica a scagliarsi contro Fellini. Allora giovane militante del Msi, Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse ammette: «Il lavoro sporco se l’assunsero i camerati, sempre a caccia di benemerenze in ambienti retrivi, più che cattolici». Infatti nel 1957, regnante Pio XII, il suo probabile erede, il cardinale Giuseppe Siri, di Fellini aveva sdoganato Le notti di Cabiria, che così poté rappresentare l’Italia al Festival di Cannes. Sulla Dolce vita i cattolici si divisero anche di più. Mentre a Padova, nella Basilica del Santo, campeggiava la scritta «Preghiamo per il peccatore Fellini», alla radio, il gesuita milanese Angelo Arpa definiva La dolce vita «la più bella predica che abbia ascoltato».
È un’interpretazione che piace ad Alain de Benoist: «La Dolce vita testimonia con estrema sensibilità non il crollo della religiosità, ma della sua facciata ben pensante. Scandaloso non era il film, era ciò che denunciava». Comunque i gesuiti milanesi rischiarono, procedendo in sintonia con L’Espresso, che cavalcava il film di Fellini.
A proposito di settimanali romani: «Marcello» (Mastroianni), le cui peripezie seguiamo nella Dolce vita, lavora per un giornale «mezzo fascista». Glielo rinfaccia l’intellettuale Steiner (Alain Cuny), che poi ammazza i figlioletti e s’uccide. Per il cinefilo Tatti Sanguineti, «Marcello» s'ispirava a Gualtiero Jacopetti. L’addetto stampa della Dolce vita, Enrico Lucherini si stupisce: «Non l’ho mai saputo. Certo, Jacopetti era famoso e bello come un dio. Tutte se ne innamoravano!». Si stupisce anche Jacopetti: «Non ho nulla in comune con quello smidollato. Amori, risse, scandali di via Veneto erano fasulli come lo sono quelli del Grande Fratello. Dietro La dolce vita, c’è solo la leggenda».
Creata da Lucherini. Se Fellini corrisponde a Beaumarchais, Lucherini corrisponde a Da Ponte. Ma allora quelle notti in via Veneto? «Per me - mi replica Lucherini - cominciavano alle 16 al tavolino di un bar, perché non avevo ancora un ufficio. I veri schiaffi fra Anita Ekberg e il marito mi portarono a ideare episodi analoghi.

Una sera portai Rosanna Schiaffino in abito rosso. Dissi ai fotografi di starle di spalle e loro non capivano che dovevano essere piazzati bene quando il vestito si sarebbe strappato». I giornali abboccavano? «Volevano abboccare. La finzione fa vendere».

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