È lo spettacolo che dà il titolo alla stagione del Teatro Oscar, anzi l'effetto è ancora più forte. La stagione è dedicata a «Il vizio della speranza», Marco Martinelli ha voluto una variazione semantica per il lavoro che porterà in scena sabato 8 e domenica 9 febbraio con settanta liceali più o meno liberi di esprimere spes con le parole di poeti che, volenti o nolenti, lo hanno fatto nel corso della storia. La pièce Si chiama «Eresia della speranza. Dante, Dickinson e Majakovskij», non fai in tempo a domandare che cosa abbiano a che fare tra di loro i tre, a parte il fatto di essere stati grandi, perché prima viene da chiedere: che differenza c'è tra il vizio e l'eresia della speranza?
Le risposte verranno dopo, insieme a quelle sull'altro spettacolo che Martinelli, fondatore - insieme a Ermanna Montanari - della compagnia teatrale delle Albe, ha in scena a Milano in questi giorni, fino al 9 febbraio all'Elfo Puccini, che si chiama «Lettere a Bernini», inteso come il grande architetto, scultore, artista barocco, nel cui studio è ambientata l'opera teatrale che ha al cuore la rivalità con Francesco Borromini, due grandi che non potrebbero essere stati più diversi, estroverso Bernini e introverso Borromini, capace di muoversi tra le corti il primo e permaloso l'altro, scanzonato Bernini e tragico Borromini. L'anziano Gian Lorenzo è infuriato con Francesca Bresciani, intagliatrice di lapislazzuli che lo accusa di non pagarla il giusto per il suo lavoro.
Perché ha voluto come titolo "Eresia della speranza", che richiama il suo "Eresia della felicità"? E che differenza vede tra vizio e eresia?
«Eresia è un termine che ho sempre amato, perché etimologicamente vuol dire scelta e quindi decidere con la propria testa. Parlare di speranza è da eretici in un mondo in cui sembra impossibile persino proporla ai bambini. Papa Francesco è il primo degli eretici».
Tradizionalmente "eretici" sono stati considerati coloro che hanno scelto una parte di un'intera dottrina tralasciando il tutto.
«Ma per me il senso è un altro, credere nel cuore e nella testa, nella possibilità di scegliere anche la parte più difficile».
Parla della scena o del mondo?
«Che parte dobbiamo recitare anche in questo mondo? Invece che quella che ci viene assegnata, quella che scegliamo, ed è per questo che mi sento eretico e amo gli eretici».
I liceali che lavoreranno con lei potranno scegliere?
«Lavoriamo coralmente. Lo spettacolo tutto è l'esito di un laboratorio che ho iniziato con settanta adolescenti del Sacro Cuore dai 14 ai 18 anni, con i quali sarò impegnato ogni giorno per due tre ore. Lavoriamo su versi da una manciata di poeti eretici, da Dante a Whitman alla Dickinson a Majakovskij fino alla poetessa lombarda Antonia Pozzi».
La coralità è la base del teatro antico.
«Lavoriamo coralmente perché il coro è il segreto profondo del teatro. Me lo dicono le epoche d'oro, penso alle rappresentazioni del Medioevo, quando artisti e cittadini erano mescolati tra di loro. Anche Majakovskij nel suo lavoro si mescola con i contadini».
Sia Majakovskij che la Pozzi sono morti suicidi. Dov'è la speranza?
«Il grido di Antonia Pozzi diventa il grido degli adolescenti e anche quello del Majakovskij suicida».
Non è pericoloso proporli come modelli agli adolescenti?
«Pericoloso? Dal 2015, dall'eresia della felicità, ho compreso che Majakovskij non muore. L'ultima sua frase è "la barca dell'amore si è schiantata con il grigiore del quotidiano", è la barca dell'amore a sopravvivere».
Il suo spettacolo all'Elfo, «Lettere a Bernini», mette in scena personaggi molto diversi, eppure è un dialogo. In che modo si relaziona con la coralità?
«Si può amare la coralità e si possono scrivere magnifici monologhi. C'è un bellissimo proverbio senegalese che mi ha sempre fatto da guida: io sono noi. Dentro di me ci sono anche altri me, poi gli spettatori che mi fanno da specchio e poi: quanti siamo? siamo un condominio di anime in ogni anima».
Un elogio della schizofrenia?
«Ma nella nostra schizofrenia siamo desiderosi di unità. Nonostante in tanti dicono che non si vuole uscire dall'inferno, in realtà gli eretici in primis, come Dante, dicono il contrario. I ragazzi li reciteranno, li canteranno li grideranno, li divoreranno. La poesia è prima di tutto un atto corporale».
Ha scelto uno spazio piccolo.
«Il Teatro Oscar è uno spazio piccolo, ma l'importante è voler forzare i limiti. Con i nostri settanta corpi staremo addosso e in braccio al pubblico, lo faremo esplodere noi».
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