Col panino di Lopriore l'appetito vien mangiando

I «bocconcini» arrivano prima dei primi e sono una delizia... Che nulla toglie ai piatti che seguono (come la crema di fave)

Camillo Langone

Inutile cercare di nasconderlo, l'Incontentabile ha un debole per i marchesiani ossia per i cuochi usciti nel corso del tempo dalla scuola del divino Gualtiero. Essendo un uomo d'ordine è sempre stato affascinato dalla nettezza estetica e intellettuale dei menù di Marchesi e dalla capacità di fare innovazione mantenendo un contatto con la tradizione. Che cos'è il celeberrimo riso oro e zafferano se non un risotto alla milanese trasferito nei luccicanti Anni Ottanta con in più un richiamo alla cucina delle corti rinascimentali? Ecco dunque il collegamento di epoche diverse e al più alto livello, senza le grevità e i sentimentalismi delle ricette di nonna. In recenti interviste Marchesi ha dichiarato di prediligere, fra gli innumerevoli suoi allievi, Paolo Lopriore. E allora Lopriore sia e sia Tre Cristi, ristorante milanese che prende il nome da uno storico (del 1830) locale senese a sua volta battezzato da un antico tabernacolo in cui Gesù crocefisso e i due ladroni nella fantasia popolare si sommarono, diventando tre Cristi. Che cosa c'entri un vecchio ristorante di retroterra cattolico e toscano con questo nuovo spazio all'ombra dei grattacieli nichilisti, asiatici e babelici di Milano Porta Nuova non è dato saperlo, il sito non lo spiega ed è impensabile chiederlo a Lopriore, il più schivo dei marchesiani. A Roberta Schira dichiarò: «Sono riservato, mi piace stare solo e spesso non rispondo al cellulare». Non si pensi che sia un atteggiamento. L'Incontentabile non riuscì nemmeno a ottenere una risposta via mail, al tempo in cui Lopriore era tornato nella sua Como per guidare il Kitchen, ristorante del locale Grand Hotel. Da quella volta ha rinunciato a qualsivoglia tentativo di contatto, avendo capito e in parte anche apprezzato la misantropia di un cuoco che nell'epoca dei social e delle P.R. pretende di parlare solo attraverso i suoi piatti. È vero che nel sito si evoca un «dialogo continuo fra commensali e cucina», è vero che una vetrata mostra il lavorio ai fornelli, ma sono mercenari conformismi che con Lopriore non c'entrano evidentemente nulla e che gli saranno stati imposti da qualche ufficio stampa, da qualche architetto. Può quindi capitare (all'Incontentabile è capitato) di pranzare al Tre Cristi con Lopriore presente in cucina ma assente in sala ed è un sollievo, pensando alle passerelle che certi cuochi vip, avidi di applausi, infliggono a clienti degradati a fan. Che si mangia? Tante cose piccole, dal punto di vista quantitativo s'intende, e almeno un paio di cose grandi, anche dal punto di vista scenografico. Prima dei primi arrivano, senza che nessuno li abbia ordinati, panzerotti e ovetti, bruschette e micropanini, una processione di bocconcini deliziosi che molti prenderebbero sottogamba perché, come scrive Leopardi, «le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito». Ha ragione chi definisce Lopriore «cuoco per addetto ai lavori»: per l'incolto un panino è un panino è panino, solo il gastronomo percepisce la qualità di ogni elemento (pane, companatico, in questo caso un grande capocollo, preparazione, temperatura, presentazione...) e capisce di stare addentando la bruschetta perfetta. L'Incontentabile temeva la perdita dell'appetito però le dosi sono talmente giuste e i gusti-base (dolce, salato, amaro, acido) talmente calibrati che poi si affrontano senza problemi le tagliatelle con le cozze, fra l'altro in porzione nient'affatto milanese e quindi abbondante, e il primo dei gran piatti scenografici ovvero la crema di fave, ostriche e cicoria che sta a Lopriore come il succitato riso e oro sta a Marchesi: piatti tradizionali e poveri (la favetta meridionale) o comunque comuni (il risotto milanese) nobilitati e vivificati da un ingrediente di lusso. Dov'è la scenografia? Nel servizio multipezzo e multicolore (spicca la casseruola rossa Le Creuset contenente la crema di fave) da cui il commensale deve attingere per comporre, in totale autonomia, la ricetta nel proprio piatto. Tutto un po' complicato, tutto un po' strano, ma la favetta è la migliore mai assaggiata (e l'Incontentabile in Puglia ne ha provate tante...). Dai secondi non opinabili (agnello e rape, seppie ripiene e capesante) si approda infine al cannolo scomposto, altra gran scenografia, altra gran complicazione ripagata da una ricotta suprema. Il filosofo Maurizio Ferraris avrebbe da ridire su questa ennesima testimonianza di derridismo gastronomico: «La decostruzione e l'indebolimento non possono durare in eterno. Prima o poi un qualche fondamento bisogna trovarlo». Intanto però il cannolo scomposto sebbene filosoficamente discutibile risulta edonisticamente inattaccabile. Cosa si beve? Nulla di memorabile, siccome il vino nei marchesiani ha sempre suscitato poco interesse.

A dispetto della tendenza meridionalista dei piatti, nella carta non si trovano rossi a sud di Montalcino, e pure le bottiglie settentrionali sono di generico accompagnamento. Forse Lopriore è astemio o forse, come il divino-ma-non-di-vino Gualtiero, vuole che l'ospite si concentri sulla cucina anziché sulla cantina.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica