Collezionare chitarre e regalare successi: il sound senza spocchia del grande J. J. Cale

Il musicista di Tulsa mescolava generi e stili influenzando tutti i big, a partire da Clapton

Collezionare chitarre e regalare successi: il sound senza spocchia del grande J. J. Cale

All'inizio del suo primo disco, Naturally, ti sembra di sentire un tergicristallo. Una rudimentale batteria elettronica, come se qualcuno avesse messo il microfono a un metronomo.

È uno di quei trucchi spartani in studio di registrazione di cui era maestro J.J. Cale, musicista schivo tanto da sembrare la controfigura delle star che hanno attinto ai suoi spartiti, trasformandoli in pezzi rock da stadio. Tutta la sua esistenza, interrotta brutalmente da un infarto che lo ha portato via il 26 luglio 2013, dieci anni fa, è scorsa come la vita parallela di chi al posto suo calcava le ribalte internazionali. Eric Clapton, per fare il caso più celebrato. Ma anche Mark Knopfler dei Dire Straits, Santana, i Lynyrd Skynyrd, persino Bob Dylan.

L'elenco di quanti hanno pescato dai suoi standard è lunghissimo, attraversa generazioni e stili. Eppure a John Weldon Cale non mancava nulla per essere una stella di prima grandezza. I vecchi amici cantano le lodi dell'ingegnere del suono, capace di prendere il rock-blues e trasformarlo in un genere radiofonico, rendendo la musica meno magniloquente, più diretta e informale, come se qualcuno in un bar cantasse solo per te, una storia che non vuole far sapere in giro a troppa gente.

John veniva da Tulsa, in Oklahoma, uno di quegli Stati centrali coi confini tracciati col righello. Una linea nel nulla, che scorre nel sole abbacinante, per centinaia di chilometri. Scontava l'inerzia iniziale, l'impossibilità di lasciarsi alle spalle una terra dove solo i tornado fanno notizia. Quando si spostò in California, c'era già un John Cale famoso, quello che suonava la viola elettrica nei Velvet Underground.

Il suo primo manager gli affibbiò allora una seconda «J», di pura invenzione, iniziale di niente, solo per tentare di distinguerlo dall'altro. All'epoca giravano già tre singoli, incisi nel 1967 per la Liberty, insieme a Leon Russell, istrionico musicista, anche lui di Tulsa, che sarebbe diventato un re mida del rock da classifica, dopo il successo avuto come direttore del faraonico tour di Joe Cocker immortalato in Mad Dogs & Englishmen. Cale e Russell condividevano una certa idea di accompagnamento musicale, fatto di una ritmica più veloce della melodia, e pochi, evocativi abbellimenti di chitarra. La materia di partenza, blues, jazz, country, cajun, non era così importante. A fare la differenza era la rilassatezza, una sorta di distacco che Cale avrebbe elevato a misura di vita, e gli altri finirono per chiamare, non sapendo bene come etichettarlo, Tulsa Sound.

Tra quelle prime tracce c'era, come lato b di un 45 giri, After Midnight. Clapton, che allora gravitava nell'orbita dei Delaney & Bonney, e cercava nuova ispirazione dopo la rapida esperienza dei Blind Faith, incise quel brano per il suo primo disco solista. Il compenso per i diritti fu sufficiente a J.J. Cale per registrare Actually, tra Nashville e Mount Juliet. A sentirlo oggi sembrano quasi dei demo, provini casalinghi che si fanno prima di entrare in studio. Non c'erano i soldi per ingaggiare un batterista vero. Un amico, Mac Gayden, suonò la chitarra slide in Crazy Mama, che riuscì a entrare in classifica, pur essendo il retro del singolo Magnolia, suggestiva ballatona acustica, poco adatta però a essere trasmessa per radio.

Tutto sembrava destinato ad avvenire a rovescio per Cale, e il secondo disco, Really, messo assieme troppo in fretta, si rivelò un fiasco totale. Si attestò allora su ritmi produttivi a lui più congeniali, prendendosi due/tre anni da un album all'altro, centellinando i concerti, le interviste, ogni forma di promozione del suo lavoro. Preferiva collezionare chitarre, comprandole di seconda mano. La prima era costata cinquanta dollari, ed era poco più di un rottame. Cambiava i pick up, modificava il suono. Era andato a vivere a San Diego, in una casa mobile, senza telefono, lo si vedeva in giro con un cane, uno spaniel. Qualcuno a Tulsa diceva che avesse investito i primi soldi in un pozzo petrolifero, ma la realtà è che aveva messo via quel gruzzoletto per costruirsi un suo studio di registrazione.

Era un ammiratore di Mose Allison, bizzarro pianista jazz che suonava una specie di rock'n'roll soffuso, come se dovesse trattenere le energie. Quello stile un po' imbrigliato, di un motore che gira a basso regime, e il timbro nasale, piacevano a John, e Troubadour, il suo disco del 1976, era stato pensato come un omaggio alla stravaganza di Allison. Conteneva una traccia, Cocaine, a cui serviva solo rimarcare un po' il riff di chitarra, così facile da mandare a memoria, per farne un successo. Ma forse a Cale sembrava una spacconata, e d'altronde cantata da lui sembrava parlasse di una tisana. Ci pensò ancora una volta Clapton a prendere il pezzo e farne un'altra hit. Qualcuno pensò bene di invitare l'autore a suonare in uno studio Tv. J.J.

si presentò con una vera band. Gli dissero che c'era il playback, i musicisti non servivano. «Se non possiamo suonare ce ne andiamo». Girò i tacchi e se ne andò, chissà se deluso o in fondo contento di essersi evitato quella scocciatura.

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