La colonna sonora della serie "The Bear" è un menu prelibato tutto da gustare

Dai Talking Heads ai Radiohead, dai vecchi successi fino a "b-side" e ballate. Lo spettatore guarda e va su Spotify...

La colonna sonora della serie "The Bear" è un menu prelibato tutto da gustare
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Ci sono serie perfette, in tutto. Nella trama, nella sceneggiatura, nei dialoghi e, ovviamente, nel cast. Poi ci sono serie eccellenti. E l'eccellenza non la fanno la trama, la sceneggiatura, i dialoghi o il cast. L'eccellenza sta tutta nella scelta della colonna sonora. Così è The Bear, successo mondiale nato dalla mente di Christopher Storer, distribuito da Disney+ e giunto quest'anno alla terza stagione.

Carmy, introverso chef di grido a New York, torna nella natia Chicago per rilevare il ristorante di famiglia, fino a qualche giorno prima gestito dal fratello che tutto d'un tratto decide di farla finita con la vita e di ammazzarsi. Gli lascia appunto una bettola che serve junk food per pochi dollari, una cucina malandata e lurida, uno staff disordinato e del tutto incapace a stare dietro ai fornelli, ma soprattutto gli lascia una marea di debiti. Tre stagioni, venti minuti a puntata. Nella prima stagione Carmy riesce nell'impresa di resuscitare la tavola calda, nel seconda lo trasforma in un ristorante di lusso e nella terza punta dritto alla stella Michelin. E potrebbe finire qui se non fosse, appunto, per la colonna sonora. Si spazia dai Counting Crows ai Talking Heads, da John Mellecamp a Eddie Wedder. E poi i Wilco, i Radiohead, i Pearl Jam, i Pixies. Una campionario che fa venire la pelle d'oca. Perché ogni volta che passa una canzone la narrazione si fa più reale, più coinvolgente, e per lo spettatore è impossibile non andare a cercare su Spotify la traccia appena ascoltata per poterla risentire una volta spenta la tivù. Ci sono vecchi successi e b-side. Ci sono canzoni rock e dolci ballate. Glorie degli anni Settanta e una vagonata di grunge. Tutto sempre perfetto. Non una nota buttata a caso. Nella seconda stagione, per esempio. Episodio due. Carmy incontra in un mini market una vecchia compagna del liceo, Claire. Il dialogo è il classico scambio di battute di due conoscenti che non si vedono da tempo. I soliti convenevoli. I tempi del liceo. Le amicizie in comune. E poi il lavoro. Claire in ospedale. E Carmy nella nuova avventura: non più dietro a un grande chef di New York ma in prima persona, con un ristorante tutto suo a Chicago.

Ed è in questo momento che tutto cambia, che Micheal Stipe inizia a cantare e i Rem a suonare. Strange currencies. «Sto aprendo un ristorante», dice lui. «O almeno ci sto provando». E lei: «Mi piace il nome». E Carmy incredulo. Perché quella bellissima ragazza che ha davanti e che non vede da secoli non può ricordare il nome. Manco dovrebbe saperlo. «Non l'ho mai detto a nessuno». Ma Claire insiste e parte la scommessa. Un milione di dollari. «Preparati ad essere fuori di tutti quei soldi, ragazzo», lo avverte. E Carmy sempre più incredulo: «Ma come fai a ricordarlo?». «Perché tu sei the bear/ l'orso, e io mi ricordo di te».

Ci sono episodi più riusciti e altri meno. Ma nel complesso The Bear è una serie che fa impallidire l'offerta media delle altre pay tv. La terza stagione, rilasciata su Disney+ lo scorso 14 agosto, si conferma all'altezza. Si parte con i Nine Inch Nails in un episodio che è una sorta di recap della vita di Carmy. E si finisce, dieci episodi dopo, con Disarm degli Smashing Pumpinks. Lasciando lo spettatore a bocca aperta per quello che ha appena visto e in balìa di innumerevoli elucubrazioni su quello che vedrà nella prossima stagione.

Nel mezzo, solo un piccolo spoiler, un'intera puntata dedicata a un dialogo dolcissimo, in sala parto, tra Natalie (la sorella di Carmy) e la madre, una donna disfunzionale e nevrotica, perennemente attaccata alla sigaretta, che per una volta nella vita riesce a farne una giusta e, sulle note di Baby, I love you delle Ronettes, alleviare (per qualche minuto) le doglie alla figlia.

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