«In coma decorticato e decerebrato vedevo e sentivo ciò che accadeva»

L’avventura umana del professor Franco Castelli è stata segnata dal vizio di vivere, trasmesso per via cromosomica anche ai figli. Monica, nata nel 1963, insegnante di educazione fisica, in otto anni di matrimonio gli ha dato cinque nipoti, adesso è arrivata a sette – la prima ha 17 anni ed è già andata a studiare come il padre negli Stati Uniti, l’ultimo ne ha appena due – tutti belli, tutti biondi, tanto che dopo averli visti in fotografia mi sono rammaricato di non essere un regista: avrei scritturato all’istante l’intera famiglia per un remake di Tutti insieme appassionatamente. Carlo, architetto, nato nel 1971, di bambini ne ha cinque, il primo di 8 anni, l’ultimo venuto al mondo quattro mesi fa. Solo Matteo, che è del 1961, anche lui architetto, non s’è ancora deciso a farne, forse perché è troppo impegnato col Centro aiuto vita a salvare i sei o sette che quotidianamente vengono soppressi nella clinica Mangiagalli di Milano, la prima in Italia per numero di aborti, oltre 1.700 l’anno.
Castelli, 73 anni, non dovrebbe nemmeno essere vivo. Nel 1965 ebbe un incidente stradale. Rimase per due settimane privo di conoscenza, senza dare alcun segno di vita, a parte qualche modesto segnale di attività elettrica riscontrato in due elettroencefalogrammi. Non era in «morte cerebrale», né avrebbe potuto esserlo, perché questa convenzione sarebbe stata introdotta per legge, e secondo altri parametri, soltanto dieci anni più tardi. Giaceva – così riporta la cartella clinica – in coma decorticato e decerebrato. «Non c’era un medico che scommettesse sulle sue possibilità di ripresa, mi facevano capire che il cervello aveva subìto danni irreparabili, al massimo potevo sperare di riportarmi a casa un ciocco, un vegetale, privo di capacità cognitive, da accudire in tutto e per tutto per il resto dei suoi giorni», ricorda Marilina Liva, sua moglie da 46 anni, architetto d’interni che ora fa la nonna e la casalinga.
Non è andata così, e il caso dell’ingegnere docente universitario risvegliatosi dal coma con le sue facoltà mentali ancora intatte, capace di ricordare la metrologia elettrica e i metodi per le analisi armoniche delle grandezze elettriche deformate, che gli erano valsi i premi Lorenzo Ferraris e Angelo Barbagelata, fa più scalpore oggi che allora, perché è oggi che si progetta di staccare la spina a coloro che versano nello stato in cui si venne a trovare Castelli.
«Pare che io sia diventato un caso quasi unico al mondo», ride con i suoi grandi occhi azzurri, che non hanno perso il magnetismo del ritratto fattogli a sei mesi di vita dal padre Carlo, pittore. «Mi hanno portato come esempio a un congresso medico internazionale a Parigi. Lo so per certo giacché ai lavori era presente il professor Carlo Piana, traumatologo, zio di mia moglie. Di solito, dal coma decorticato e decerebrato si riprendono solo i bambini. Ma un uomo di 31 anni... Era quella la mia età al momento del patatrac».
Ha fatto di più che riprendersi, il professor Castelli. Uscito dal coma che sembrava irreversibile, ha generato Carlo, l’ultimo dei suoi figli. È tornato a insegnare nel dipartimento di elettrotecnica del Politecnico di Milano, dov’era entrato nel 1961 e dove ha tenuto la cattedra per trent’anni, fino al 2004. Già in pensione, se lo sono ripreso come professore a contratto per fargli tenere il corso un’ultima volta.
In che modo cadde in coma?
«Era il 14 novembre 1965, una domenica. Con mia moglie stavo andando alla messa delle 10.30 a Santa Maria delle Grazie. Eravamo in ritardo, perciò correvo. In piazza Giovane Italia non ho rispettato una precedenza. Dall’altra parte sopraggiungeva a più di 80 chilometri orari un’auto molto più robusta della mia Fiat 500. Nell’urto sia io che mia moglie fummo scaraventati sull’asfalto. Volammo fuori entrambi dalla portiera del lato guida».
Dove vi portarono?
«Al Policlinico di via Dezza. Due ore dopo il ricovero cominciai a vomitare e a sbavare. Caddi paralizzato. Fui trasferito d’urgenza in neurochirurgia e di qui in sala operatoria. Il professor Nicola mi tenne sulla barella con cui ero arrivato, per non perdere tempo».
Fece quello che dovrebbe essere fatto di routine negli ospedali entro 120 minuti dal trauma: aprire la scatola cranica e decomprimere il cervello, invece di rassegnarsi al sopraggiungere della «morte cerebrale». Spesso basta l’aspirazione di pochi centimetri cubici di liquido emorragico per impedire la compromissione dei centri che presiedono ai cinque sensi, ai movimenti e al linguaggio.
«Infatti il professor Nicola, per guadagnare minuti preziosi, evitò persino di farmi mettere dagli infermieri il camice operatorio, mi lasciò addosso gli abiti che avevo. Eseguì la craniotomia senza neppure radermi i capelli. Mi suturò le vene parietale e temporale di destra che versavano sangue. Sperava che riprendessi conoscenza. Invece no. Finii in rianimazione. Mi praticarono la tracheotomia e mi attaccarono al respiratore automatico. Allora ce n’erano solo due, di respiratori. Mi chiedo sempre che cosa sarebbe accaduto se quel giorno non ve ne fosse stato neanche uno a disposizione».
Fu fortunato.
«Di più: privilegiato. In rianimazione era di turno la compianta professoressa Maria Luisa Bozza Marrubini, al sesto mese di gravidanza, che l’indomani avrebbe cominciato il suo periodo di astensione obbligatoria dal lavoro. Era la figlia del professor Gino Bozza, rettore del Politecnico. Suo padre le ordinò: “Maria Luisa, sta’ lì e assistilo. È un mio assistente che promette bene”. Non si mosse più dal mio capezzale».
Un angelo custode.
«Il professor Maspes avrebbe voluto sottopormi a una carotidografia, iniettandomi un mezzo di contrasto per studiare la situazione del circolo cerebrale. Lei lo scongiurò di soprassedere e ottenne di lasciarmi immobile per altri tre giorni. Al terzo giorno, la dottoressa ebbe un’emorragia e svenne. Sembrava che dovesse perdere il bambino. Anni dopo la morte della moglie, il marito, il professor Marrubini, medico legale, mi ha confessato: “Lo vede? La dedizione di Maria Luisa per lei, giovane padre in coma, qualche cosa ci ha lasciato: questo ragazzo, nostro figlio”».
E lei migliorò?
«Al terzo giorno, dopo che per quasi due settimane i medici ogni mattina avevano ricopiato sulla cartella clinica sempre la stessa formula, “Paziente come già descritto in precedenza”, diedi il primo segno di vita, un sussulto mentre l’infermiere mi faceva un’iniezione».
Crede di ricordare qualcosa del suo coma?
«Vidi mia mamma che recitava il Padre nostro ai piedi del letto nella stanza dov’ero ricoverato. Il fatto è che non posso averlo visto, perché ero in stato d’incoscienza e con gli occhi chiusi».
Non la seguo. Si spieghi meglio.
«Una nostra amica lavorava nell’Opera Cardinal Ferrari, dove sono custodite le reliquie del beato Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921. Siccome solo un miracolo poteva salvarmi, offrì a mia madre di portare in ospedale il corporale appartenuto al cardinale. È un panno quadrato di lino bianco, sul quale durante la messa il celebrante depone il calice e l’ostia. Me lo appoggiarono sul petto, recitando la preghiera. Ricordo che vidi il loro segno di croce e il trespolo della flebo e pensai: è domenica, mi portano la comunione. Allora cercai d’associarmi, “Padre nostro che sei nei cieli”, ma mi sentivo sacchi di paglia bagnata nella bocca e la lingua spaccata. Al “sia fatta la tua volontà” mi dissi: ecco, Franco, anche se fossi arrivato al termine del tuo cammino, questo Dio che hai appena chiamato papà ti darà una vita ancora migliore. Mi assalì l’angoscia dell’esame di coscienza. Ragionai: che cosa ho fatto di sbagliato perché io debba essere sostituito da un altro uomo come marito e come padre dei miei bambini? Difetti ne contai tanti, ma motivi sufficienti per morire non ne trovammo né io né Lui. E infatti Lui mi ha lasciato qua».
Vide e pensò tutto questo? Com’è possibile?
«È quello che mi ha obiettato sino alla fine mia madre: “Ma chi te lo ha raccontato, Franco? Tu eri con gli occhi sempre chiusi, in coma, non puoi avermi vista mentre pregavo”. Sarà stata una percezione extrasensoriale. Ho letto di una trentenne cieca che ha subìto un intervento chirurgico al cuore. Per un inconveniente tecnico s’è interrotta la circolazione extracorporea. Lei ha visto tutto e al risveglio dall’anestesia ha raccontato ai medici ciò che era accaduto. Nessuno può dire che cosa avvenga nel passaggio dalla vita alla morte o dalla morte alla vita».
Come furono le settimane dopo essere uscito dal coma?
«Avevo lo stesso sguardo delle galline. Ero ritornato bambino: dovevo imparare di nuovo a mangiare, parlare, camminare. C’impiegavo un’eternità per deglutire un boccone. Ero un pacchetto: “Fa’ questo, fa’ quest’altro”. Veniva a trovarmi un collega del Politecnico e mi raccontava che fino al 26 ottobre, due settimane prima dell’incidente, ero stato al National bureau of standards di Washington, con un contratto di ricerca del Cnr, e il bello è che io lo rammentavo perfettamente. Fu considerato un grande successo quando scrissi: “Castelli”. I medici si davano di gomito: “Incredibile, lo ha scritto giusto, con due elle!”».
Riconosceva i suoi figli?
«Mi portarono Matteo e Monica a fine gennaio. Avevano 4 e 2 anni. Io mi rivedo in poltrona, mia moglie giura che invece ero a letto, però vestito. Le loro voci squillanti mi ferivano come frecce. Matteo disse: “Mamma, questo non mi sembra il mio papà”. Monica si mise a urlare. Pensai: non puoi pretendere di fare le cose che facevi prima, adesso devi trovare un nuovo modo d’essere marito e padre».
Invece tornò all’insegnamento.
«A luglio ero pronto per l’esame di libera docenza. Mi respinsero la domanda: “Deve dimostrare la sua idoneità con una nuova produzione scientifica”. La dimostrai. “Era un bell’ingegnere, ma adesso...”, bisbigliavano i colleghi. Mi proibirono di andare al Politecnico di sabato, quando non c’era la sorveglianza, per paura che combinassi qualche disastro. È stata dura. Però mi hanno voluto tutti bene, hanno pazientato. In un’azienda privata m’avrebbero dato il benservito e mandato in pensione. Nel 1971 ho vinto il concorso. Nello stesso anno è nato il mio ultimogenito, Carlo, a nove mesi dalla morte di mio padre. Proprio come si legge in Qoèlet: “Una generazione va, una generazione viene”».
Che cosa pensa della «morte cerebrale»?
«Conosciamo appena il 10% delle funzioni del cervello. Quindi è assurda una legge che identifica il momento della morte con la cessazione irreversibile di funzioni di cui si sa poco o nulla. Mi sembra una nozione che risponde a un approccio utilitaristico, finalizzato ai trapianti d’organo, più che a un atteggiamento di precauzione. In dubio pro vita. Meglio astenersi, quando c’è la presunzione che l’individuo possa essere vivo. Cerchiamo le cure, invece d’imporre la morte d’ufficio per questi pazienti».
La convince il testamento biologico propugnato con inserzioni sui giornali dalla Fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze?
«Non lo farei mai. Ogni uomo è un caso a sé. Come posso prefigurare ciò che mi accadrà al momento di tirare le cuoia? Saranno le persone care a decidere che cosa è meglio per me. Perché togliere al Padreterno la possibilità d’allungare la mano?».
Al Padreterno lei ci crede, altri no.
«Il cervello umano è costituito da 200 miliardi di neuroni, qualcosa di molto simile alla Via Lattea, connessi fra loro da un milione di miliardi di collegamenti. E tutto questo si sarebbe autocreato per caso? Un milione di miliardi di collegamenti, tutti al posto giusto, non si realizzano e non si organizzano per caso. La formazione casuale del sistema nervoso centrale dell’uomo non è improbabile: è impossibile».
L’ex ministro Veronesi ha dichiarato: «La medicina spesso espropria il diritto alla morte. Macchine complesse tengono in vita persone senza coscienza per settimane, mesi, anni. Questa è una vera violenza alla natura». Lei è vivo perché è stata violentata la natura.
«Grazie per questa violenza, grazie di cuore».
In casi come quelli di Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli, malati senza speranza che soffrono, a quali regole si atterrebbe?
«Nel 1956, pochi mesi prima di morire, il poeta Giovanni Papini pubblicò sul Corriere della Sera un articolo intitolato “La felicità dell’infelice”. L’ho messo da parte: “Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto. Non posso dunque camminare né stringere la mano di un amico né scrivere neppure il mio nome; non posso più leggere e mi riesce quasi impossibile conversare e dettare. Ma non bisogna tenere in picciol conto quello che mi è rimasto ed è molto ed è il meglio. Ho salvato, sia pure a prezzo di quotidiane guerre, la fede, l’intelligenza, la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la passione di meditare e di ragionare e quella luce interiore che si chiama intuizione o ispirazione. Ho salvato anche l’affetto dei famigliari, l’amicizia degli amici, la facoltà di amare”».
Veronesi sostiene «il valore dell’eutanasia come richiesta volontaria e cosciente di porre fine alla propria esistenza». Che c’è di male nello staccare la spina?
«Ho pregato in stato di coma, ed ero considerato un rottame. C’è qualcosa, dentro di noi, che non è riconducibile alla capacità di comunicare con l’esterno. La vita non è mia, non è l’orologio che mi sono comprato. L’ho avuta in dono per farne dono agli altri.

Anche se Dio non c’entrasse nulla, e io invece credo che c’entri, l’avrei pur sempre ricevuta in dono dai miei genitori. Lei butterebbe via la cosa più preziosa che le hanno lasciato in eredità suo padre e sua madre?».
(364. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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