Che la nazionale italiana di calcio non sia proprio ai suoi massimi livelli di popolarità non serviva Renzo Bossi a ricordarlo. Ci sono tre tipi di disaffezionati.
I primi sono quelli strutturali, che negli stadi ci vedrebbero piantagioni biologiche, con gran vantaggio per la salute e la bilancia commerciale. Quelli - davvero tanti - che non ne possono più di partite in tv ogni sera, di insulsi processi del lunedì che si protraggono fino a domenica. Per questi la nazionale è il paradigma negativo dell’intero ambaradan tele-sportivo, e vogliono che i mondiali finiscano subito per evitarsi chiassi notturni e indigestioni mediatiche: il modo più rapido per scansare la sofferenza è che l’Italia perda fin dall’inizio e amen.
C’è poi il crescente esercito degli «anti» ideologici, quelli che restano pateticamente abbracciati al dagherrotipo di De Coubertin e che vedono nel calcio odierno una vergognosa e immorale sbrodolata di fighetti milionari, di interessi loschi, di soldi buttati, di trucchi e droghe: insomma una schifezza da cui stare alla larga.
C’è infine l’orda più recente e rigogliosa di quelli che magari amano il calcio, che potrebbero anche sopportarne le nefandezze, ma che sono nemici della nazionale proprio perché nazionale, e simbolo di una struttura politica che ritengono ostile, estranea e oppressiva. Come i catalani che non tifano Spagna. Come scozzesi, gallesi e ulsteriani cui la lungimirante Gran Bretagna ha fornito una nazionale propria per evitare insulti e ortaggi a quella londinese. Qui invece alla nazionale si dà il forte significato di segno patriottico ed è questo il vero motivo di tanto non-amore: se i patrioti italiani avessero fin dall’inizio evitato di attribuire tanta valenza tricolore al pallone non staremmo qui a discuterne. Ma - ahimè - non ci sono grandi alternative per un sentimento nazionale un po’ anemico: in giro per il mondo all’immagine dell’Italia si associano pizza, mafia e mandolino, non proprio segni araldici fra i più commendevoli, o - quando va bene - le poppe di qualche procace star del cinema, la Ferrari e il calcio appunto.
Oggi, per ragioni di bottega, sono tutti patriottici e federalisti, ma per decenni il solo posto dove si vedeva il tricolore erano gli stadi. A chi lo sventolava fuori toccavano l’etichetta di fascista e legnate proprio da parte di quelli che oggi - anche da posti mooolto altolocati - si avviluppano nei tre fatali colori, come Gea della Garisenda.
Non è edificante né patriottico, ma in questo paese c’è più gente disposta a farsi ammazzare per la formazione della nazionale, per un rigore negato, che non per i sacri confini o per i propri governanti, un punto quest’ultimo su cui è difficile dar loro torto.
Il tricolore, nato come segno di uno Stato subalterno e di un partito politico, è stato preso come simbolo di una identità rabberciata e in un secolo e mezzo si è visto agghindare con scudi sabaudi, fasci, aquile repubblicane e stelloni, e ha conservato qualche purezza araldica solo negli stadi, fino quasi a diventare la bandiera di una squadra di calcio, prestigiosa fin che si vuole, ma pur sempre una falange di undici giovanotti in mutande. Al calcio si sono affidate le sorti d’Italia, dall’azzurro sabaudo delle maglie, ai saluti romani di Vittorio Pozzo, ai presidenti-tifosi, alle sparate di Gigi Riva che ha sostenuto che il Paese (maiuscolo) sia stato salvato nel 2006 (da che?) dalla vittoria mondiale. Come Bartali nel ’48. Mai che riesca a salvarsi fuori dalle pagine della Gazzetta dello Sport!
Affidare le sorti dell’identità nazionale a un pallone è terzomondista e pericoloso: ricordiamo bene la Marcia Reale o Giovinezza suonate per errore (o per sfottò) in occasione di partite importanti. Se si dà a una squadra di calcio il compito di rappresentare una istituzione, non ci si può lamentare che la gente trasferisca su di essa opinioni e sentimenti che nutre per l’istituzione.
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