STEFANO ZURLO
da Milano
Ha indagato su piazza Fontana e sull’eversione rossa. Oggi Guido Salvini è il giudice che ha disposto l’arresto di numerosi presunti terroristi arabi e ha fotografato, in corpose ordinanze di custodia, il fenomeno della Jihad.
Dottor Salvini, dopo l’11 settembre il Parlamento ha introdotto l’articolo 270 bis del codice penale e il reato di terrorismo internazionale. Il nuovo strumento legislativo è adeguato al drammatico momento in cui viviamo?
«Di fatto l’articolo 270 bis è già in qualche modo una legge speciale. È stato seguito lo stesso metodo utilizzato per il terrorismo interno e la mafia».
In concreto?
«Periodi di carcere preventivo dilatati; intercettazioni preventive e non più facili; infiltrazioni; protezione dei collaboratori; possibilità di indagare a lungo. Si è fatto molto e si è arrivati al limite del sistema, ma senza superarlo. Questa è una buona legge. Certo, per applicarla al meglio sarebbe utile creare una sezione della Procura nazionale antimafia che coordini le indagini sul terrorismo».
Ma la legge si può cambiare, come suggerito da molti commentatori?
«Sì. Precisando esplicitamente che la promozione di un’organizzazione terroristica è possibile anche solo con l’indottrinamento in apparenza religioso, ma in realtà finalizzato al convincimento fanatico e al reclutamento. Penso, ad esempio, alla propaganda mediante videocassette».
Le condanne arrivano però col contagocce. Come mai?
«È stato compiuto un grave errore di metodo: si sono utilizzati i medesimi criteri interpretativi impiegati per il terrorismo interno».
Dove sta l’errore?
«Le Brigate rosse erano, al di là dei fini illeciti, partiti politici in miniatura, organizzati secondo lo schema classico di un “partito rivoluzionario” ma caratterizzati da una sostanziale vicinanza e conoscibilità da parte del singolo militante del programma e degli obiettivi a breve-medio termine dell’organizzazione. Quindi il militante delle Br, operando in un’organizzazione ristretta, nel momento in cui metteva a disposizione un documento falso o un appartamento, era consapevole di collaborare, con la sua condotta, ad un’azione destinata ad avvenire in una determinata località, organizzata da un gruppo definito ed avente un obiettivo definito».
Il terrorismo di matrice islamica?
«Non è caratterizzato da decisioni di partito ma da un sistema diffuso di franchising dove cellule ed organizzazioni federate possono progettare in più continenti azioni non ordinate da nessuno ma che sono in sintonia con il progetto generale. Infatti Al Qaida non rivendica propriamente tali azioni ma elogia i loro autori».
D’accordo, ma che c’entra il terrorismo in franchising con i giudici italiani?
«C’entra eccome. Il progetto delittuoso finale non è predefinito dai singoli aderenti e nemmeno dalle singole cellule che operano in uno spazio determinato o in una realtà che, come l’Italia, è stata sinora una retrovia. Il singolo apparentemente può limitarsi a inviare denaro, ospitare un militante in transito, procurare un documento falso. Il singolo non sa quali azioni in futuro verranno commesse grazie a tali condotte, ma sa che in questo modo lui partecipa al progetto generale del network Jihad».
Dunque il singolo dev’essere punito in base all’articolo 270 bis per terrorismo internazionale anche se si limita a spacciare una banconota falsa o a ricettare un documento? È questa la sottovalutazione di cui lei parlava?
«Esatto. Non si possono contestare solo reati satellite a persone inserite, sia pure in modo laterale, nel network di Al Qaida. Anche chi spaccia una banconota falsa è un terrorista. Del resto questo rigore viene prescritto dalla Decisione Quadro europea del giugno 2002, stranamente ignorata da molti giudici».
Ci sono state anche molte polemiche sulla distinzione fra guerriglia e terrorismo.
«Le categorie di guerriglia e guerriglieri sono discutibili e atecniche.
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